1
Ho dovuto impormi una scadenza: oggi!
Diversamente avrei sempre trovato una scusa, almeno una, per non sedermi davanti allo schermo e iniziare a lavorare.
Fossero le sigarette finite o la voglia di un buon caffè, l'ora settimanale a squash o la finale di Champions League su Rai International, il contributo mensile alla rivista politically correct in lingua italiana o le partite a briscola con i bambini, il barbecue da Steve Musumeci o la cena a lume di candela da Alfredo at Bulletin Place, il ristorante italiano cool giù al Circular Quay, c'era ad ogni ora un pretesto per rimandare, rimandare, rimandare.
Ma bisogna pur scriverla ‘sta storia, no?
Una prova di maturità, una cerimonia d'iniziazione alla quale non ci si può sottrarre se non si vogliono seppellire sotto una rovinosa valanga di frustrazioni, di mea culpa e di conseguenti stati depressivi, le proprie fatue velleità letterarie e le già quasi inesistenti possibilità di guadagnarsi da vivere usando la scrittura. Quindi quella del romanzo è una carta che va assolutamente giocata: è determinante ed è insostituibile. E va giocata bene, naturalmente.
Perchè il romanzo non basta scriverlo: bisogna anche pubblicarlo. E poi, naturalmente, non guasterebbe che qualcuno lo leggesse.
Non posseggo purtroppo quelle doti di diplomazia che mi permetterebbero di andare ad elemosinare a un qualche ente più o meno culturale, le spese di tipografia per stampare mille copie. Se proprio nel mio karma c’è scritto che devo cambiare mestiere e diventare scrittore, preferisco la normale gavetta: i lavori cestinati, i premi letterari della profonda provincia, le manifestazioni culturali a tarallucci e Victoria Bitter.
Del resto, di quel migliaio di libri col mio nome stampato in copertina, almeno settantre andrebbero a impolverarsi nella libreria di benevoli parenti e amici e le altre novecentoventisette copie, imballate nei cartoni cerati delle banane, così da non subire i danni dell'umidità, finirebbero nella cantina di casa mia.
Bisogna che piaccia il romanzo! Altrimenti, se non piace, se noi sei riuscito a mettere in pratica tutti i piccoli e grandi accorgimenti che fanno di circa trecento parole una pagina leggibile, anche l'acquisizione di un generoso mecenate non farebbe che rimandare il momento della verità. Non servirebbe che ad allontanare nel tempo la sera in cui, magari resi baldanzosi da una buona bottiglia di Merlot e incuranti, perchè non più sobri, del male che ci stiamo arrecando, finiremmo per guardarci a uno specchio e quasi con spregio, come se quella riflessa non fosse la nostra immagine ma quella di un qualche povero diavolo su cui vomitare il nostro disprezzo, confesseremmo a noi stessi con un briciolo di commiserazione e tanto sarcasmo:
- Quello che scrivi non vale niente: lascia perdere.
2
Ecco, la pagina è iniziata. Il titolo per adesso lo lascio in bianco - vediamo come si sviluppa - ma ho messo il numero del capitolo e posso iniziare a far lavorare le dita sulla tastiera facendo apparire sullo schermo le lettere, le parole, le frasi, la storia che devo raccontare.
Aspetto. Non succede niente. Accendo una sigaretta, aspiro profondamente, con voluttà, come direbbe quella buonanima di Luciano Tajoli. Ben presto non mi resta che il filtro tra le dita: non succede niente. È l'approccio che è sbagliato, mi dico: ti devi fare un bel caffè, con lo zucchero in precedenza sbattuto usando la prima goccia che esce dal beccuccio, così fa la cremina tipo bar. Poi, allora si che ci va la sigaretta. Solo dopo questi due riti propiziatori, ti puoi sedere e iniziare.
Mi alzo. Preparo e gusto il caffè. Tiro fuori dal pacchetto una seconda sigaretta e la spetazzo un po’ tra l'indice e il pollice così poi brucia meglio. Pezzetti di tabacco cadono sul pavimento: Dido, il piccolo cane apparentemente compreso nel prezzo dell’affitto settimanale della bicocca in cui vivo momentaneamente, si avvicina, annusa, starnutisce e torna agli affari suoi.
Quando anche questo secondo filtro finisce schiacciato nel posacenere, do uno sguardo attorno e la mia rapida panoramica termina inesorabilmente sullo schermo: è vuoto, desolatamente vuoto. Che nervi! Aspetto ancora un po’: non succede niente. Niente, neppure uno straccio di idea, un piccolo volo di fantasia, un refolo d'ispirazione. Che tragedia! Non mi esce proprio, ‘sta storia. Mi sto anche innervosendo. Meglio lasciar perdere per adesso, riproverò più tardi: è meglio andare a fare due passi e rilassarsi un po’ prima di riprovarci.
Indosso l'impermeabile, il vecchio cappello deformato, ché sto facendo la parte dell’intellettuale bucolico, tiro dietro di me la porta e mi avvio, seguito dal cagnetto, per le strade del piccolo borgo dove mi sono ritirato per trovare l’ispirazione.
Eppure devo riuscire ad esprimermi, voglio scriverlo questo romanzo. Sono o non sono una delle punte emergenti della letteratura italiana in New South Wales? Appartengo o no alla seconda generazione di scrittori italo-australiani di cui Nino Culotta è l’indiscusso capostipite? Nino Culotta, sebbene personaggio di fantasia, è il padre putativo di noi tutti artigiani della parola italica scritta, in Australia. Leggere They’re a weird mob, il romanzo delle sue avventure aussie alla fine degli anni ’50, è un’esperienza irrinunciabile. Poi, per colmo di sense of humour, esse sono narrate da un australo-irlandese, certo John O’Grady, e questo, si capisce, le rende veramente irresistibili anche se ogni volta che le rileggo, non capisco bene perché ma in gola mi resta un retrogusto amaro.
Ma eccomi arrivato al pub. Entro e almeno dodici teste si voltano a guardarmi. Il tempo di accostarmi al bancone e parte l’arcinota sequela di scherzi farciti di puntualizzazioni che definire campaniliste è un eufemismo: italiani tutti mafiosi, italiani tutti mussolini, italiani tutti cagasotto in guerra ed altre amenità di carattere squisitamente sessuale che non sto qui a riportare solo perché, malgrado tutto, mi resta un briciolo di decenza. Il tipo dietro al bancone non si tira indietro e da corda ai suoi clienti sfoderando un sorrisetto che la dice lunga sulla sua indiscutibile ospitalità. Comunque, esibendo falsa noncuranza, mi accosto al bancone e prima che abbia avuto effettivamente il tempo per pensare a cosa voglio bere, sento la mia voce ordinare un Ricard. Lui mi guarda tra lo stupito e l’incazzato: “Cos’è il Ricard?” mi chiedono i suoi occhi arrossati dalle pinte di bitter e dal fumo del mozzicone di sigaretta che penzola dalle sue labbra. - Eccolo lì, è arrivato il puzzanaso che fa l’uomo di mondo - sembra volermi dire. - Dove pensavi di essere in un bistrot sulla Canabière a Marsiglia - mi chiedo mentalmente io. Qui è l’outback australiano e chiedere un aperitivo francese può voler dire solo una cosa: sei uno con la puzza sotto il naso. Sei uno snob, uno di quei rompicoglioni, per di più straniero, che vengono dalla città a scombussolare con le loro stravaganze il nostro tran-tran giornaliero. Che qui all’unico pub di Mindugai, per tua informazione, mate, è costituito da camicie a quadrettoni di pesante flanella, scarponi infangati, puzza di sudore mista a quella del gregge, birra, rutti, scoregge, rugby league e grasse risate; ritorni a casa per una cena con due belle salsicce o una bistecca con contorno di verdure in scatola, mangiate davanti alla televisione guardando Sex & the City così, hai visto mai, se lei si aggalla e non ha l’emicrania, magari poi…chiaro, mate? - Insomma non potevi entrare ed ordinare una mezza pinta di birra - mi chiedo con biasimo. Così faccio, infatti, e l’atmosfera, che si era fatta un po’ tesa, ritorna rilassata. L’uomo sorride ora, se quel ghigno che ha stampato in faccia si può chiamare sorriso, e mi versa un boccale di birra.
3
Son tornato in città e ho lavorato. Ho firmato un contratto per quattro piani di lavoro per cucina: roba da marmista. Due di giallo veneziano, una di Carrara e una di verde Guatemala. Belle! Stavolta, con Ennio, ci siamo superati: taglio preciso e fine, incastri perfetti, spessori adeguati e finiture al bacio. Pagavano veramente l’occhio. Specialmente l’ultima, quella di verde Guatemala. La casa dove l’abbiamo installata era un bel cottage inizio secolo, in blocchi di arenaria e legno, seminascosto in una macchia di eucalipti frondosi e immerso in quella verde penombra che da queste parti fa subito pensare alla giungla. La cucina poi, in legno di quercia stagionato, impreziosito da una lacca color terra di Siena bruciata, sembrava attendere da sempre quel ripiano marmoreo. Sebbene una lastra di marmo, per bella che sia, faccia inevitabilmente pensare a una tomba, ad un cimitero.
E non ho né ruttato e neanche scoreggiato e mi levavo gli scarponi sporchi di fango all’ingresso delle abitazioni dove stavo lavorando.
4
Sono di nuovo a casa. Ho messo su Pino Daniele: mi va un pizzico di nostalgia del passato. Sono uscito dal pub dopo aver sorseggiato con calma un paio di Guinness che mi hanno fatto immalinconire un po’.
Hai visto mai che questa sia l’atmosfera giusta per tirare giù una paginetta?
Dai, forza, c’è la mortadella comprata ad Haberfield: un panino veloce, un bicchiere di Shiraz, un caffè e sono pronto. Ma pronto a fare cosa? A mettermi lì davanti a quello schermo e. a cercare di mentire anche a me stesso, con la storia del romanzo.
- Ma vai e ti curchi - esclamerebbe ironico il Di Cianni, intuendo immediatamente la realtà dei fatti: zero, niente! Una dozzina di cappelli abortiti miseramente dopo appena, nel caso migliore, mille battute.
Non posso fare altro che rifugiarmi nel racconto di me stesso, nella cronaca giornaliera, nel diario. Altro che vezzo giovanile, il diario: funziona sempre. Senti qua che letteratura…
Adesso sono quasi tre mesi che non entra una lira in casa e aldilà delle mie esigenze personali, che comunque sono parche e trascurabili, devo pensare a lei e ai bambini. Le cucine di marmo e granito sono un buon business, ma il lavoro non è più quello di una volta. Tutto appiattito per la troppa concorrenza: cinesi, pakistani, indiani, mediorientali: sembra che tutti si siano messi a lavorare il marmo ultimamente. La Pietà del Buonarroti non basta più a dare agli italiani la reputazione di buoni marmisti: ora trionfa l’interesse. O ci si adegua a certi ritmi o si soccombe perchè quando si cerca di offrire un prodotto finito un po’ più sofisticato, con una lavorazione più bella e ricercata, ci si scontra con i prezzi che la produzione semi-industriale dei laboratori asiatici può offrire sul mercato. E se vado a lavorare per altri, non ho più tempo per me e questo, proprio mentre io comincio a desiderare più tempo per sedermi e riflettere, scombussola un poco i miei piani. Più tempo per imparare a scrivere. Più tempo per fare tutta la chiarezza necessaria a far si che ciò che penso diventi una serie di frasi leggibili. Come adesso, vedi? Se non ti impalli con la menata del romanzo, ché tanto non sai tecnicamente come si fa a scriverlo e se capisci la bellezza dello scrivere raccontando di se stessi e di cose non necessariamente cervellotiche, ecco che scrivi. E viene anche fluido! Senza tanti ripensamenti sul termine più o meno appropriato, sull’aggettivo più consono. Di getto, come si dice. Poi vedi bene: in dieci minuti ottanta parole. Sai cosa significa questo? Una media, se si raggiunge una certa costanza, di quattrocento parole l’ora. Calcolando quattro ore al giorno, sono milleseicento parole e anche escludendo i fine settimana, festivi e compleanni, onomastici e matrimoni, ricorrenze e feste varie, anniversari e funerali, in due anni una persona dovrebbe essere in grado di mettere assieme uno scritto di almeno 120.000 parole. Oltre a mantenersi, naturalmente: articoli, recensioni, qualche bel discorso da mettere in bocca ad uno dei dignitari della nostra variopinta comunità italo-australiana...
5
Dopo mezza bottiglia di Beaujolais ben fresco in circolo, in genere il buttare giù parole mi viene più fluido. E allora quella gran puttana della Luna mi manda una sua ancella a sussurrarmi cose malinconiche oppure allegre, belle o assolutamente inascoltabili, caste oppure estremamente lussuriose e improvvisamente è come se la tastiera, finalmente, dedicasse le sue attenzioni solo a me dopo aver flirtato con cani e porci! Così io, che sento spesso dire che bisogna fare come Giano il bifronte, dare uno sguardo nel passato tanto per vivere il presente con una prospettiva di futuro, mi lascio andare e seguo scrupolosamente il consiglio. E scrivo, caspita se scrivo.
continua Amico mio, continnua
ReplyDeleteGrazie. E voi continuate a commentare e a sostenermi condividendo il blog con i vostri contatti.
ReplyDelete