Wednesday, July 10, 2013

UN GOTTO DI BEAUJOLAIS

o della schizofrenia del migrante




1
Ormai fumarsi una sigaretta è diventato un reato da codice penale. Prima si poteva fumare ovunque ed era uno schifo; poi hanno messo il divieto di fumare nei locali pubblici e quella, secondo me, era la giusta sintesi tra pro e contro.
Adesso per accendere la sigaretta bisogna essere ad almeno quattro metri da un “qualunque edificio aperto al pubblico” recita il decreto. Il che significa che può capitarti di dover camminare per un isolato prima di poter accendere la “bionda”.
Quando finalmente hai trovato il luogo adatto, giri la rotella del bic, accosti la fiammella alla punta della sigaretta e aspiri profondamente, con evidente soddisfazione, ché a quel punto ne hai proprio voglia di accenderla.
In quel preciso istante passa una vecchietta, si ferma per un attimo, ti guarda con un’espressione disgustata e incurante del fatto che sta inalando a pieni polmoni lo scarico di auto, moto, camion, autobus e furgoni, scuote il capo incredula di fronte a tanta stupidità e poi prosegue.
E lì...la voglia t’è già passata!
Quindi, in breve, per non infastidire nessuno - e per non sentirmi come un imbecille di fronte alle vecchiette igieniste - fumo solo in privato.
In questo momento infatti, non dò fastidio a nessuno: sono solo, nel mio studio, la finestra spalancata sul giardino e fumo mentre aspetto il prossimo paziente.
Mi chiamo Arthur Calvini e si, sono medico: psicanalista. Dice: come, sei medico e fumi? Non lo sai che fa male? Si che lo so. Ma godo ad accendermene una, mi piace: tre, quattro volte al giorno, non di più, con immenso piacere.
Credetemi: ammazzano di più le rinunce forzate che non i piaceri.
Dunque, sono quasi le sette e tra dieci minuti Mandy farà passare l’ultimo paziente della giornata.
Vediamo chi viene: ecco qui, uno nuovo, un certo Panizzi. Allora: questo è stato fatto, questo va bene, il modulo è a posto, le coordinate bancarie ci sono, tutto in ordine! Cosa vuole Panizzi? A ecco, è italiano prima generazione e si sente disadattato.
Suona l’interfono:
- Dica Mandy.
- Professore, il signor Panizzi è arrivato. È un po’ in anticipo: lo faccio passare?
- Mi dia un minuto: sto finendo di leggere le carte.
- Non abbiamo altri pazienti per oggi, professore. Dopo che il signor Panizzi si è accomodato posso andare?
- Vada pure Mandy, grazie. Ci vediamo domani pomeriggio alle tre. Buona serata.
- A lei professore, a domani.
Esco in giardino, spengo accuratamente il mozzicone e lo getto nel posacenere. Rientro, mi risciacquo le mani ed ho giusto il tempo di riappoggiare la cartella clinica sulla scrivania, stringere il nodo della cravatta e nebulizzare del deodorante al sandalo che sento bussare alla porta:
- Come in.
- Good evening, doctor.
Sono nato e cresciuto qui ma con l’italiano mio padre non sentiva ragioni ed ho imparato a parlarlo abbastanza bene. Decido di impressionare Panizzi favorevolmente:
- Buonasera, si accomodi Panizzi. Dunque...ecco, Beppe. Allora Beppe, ha avuto una buona giornata?
Sorride alla sorpresa, ma è un sorriso spento, non proprio incoraggiante:
- Sono contento che parliamo in italiano, così posso esprimermi meglio. Come è andata la giornata? Non mi lamento, cioè..si insomma, lasciamo perdere.
- E no Beppe caro: se cominciamo a lasciar perdere, mi scusi, allora cosa è venuto a fare? Se ha pensato di rivolgersi ad un analista e poi vuole lasciar perdere come posso poi io esserle utile?
- ‘nso mica se mi sarà utile, sa? Ma le ho provate tutte, provo anche lo strizzacervelli.
E no, cazzo! Vent’anni di studio; altri due per l’iscrizione all’albo - da quel pallone gonfiato che mi trattava come uno zerbino - e venti di onorata carriera per farmi dare dello strizzacervelli dal primo venuto?
- Senta, meglio essere subito chiari: se lei pensa che queste sedute le saranno d’aiuto, resti pure, altrimenti guardi, qui c’è la sua documentazione, lei non mi deve niente e siamo amici come prima.
Prima emette una specie di grugnito, poi bestemmia e infine sbatte il palmo della mano sul bracciolo della poltroncina.
Poi china il capo, si copre il viso con le mani e le sue spalle prendono ad essere scosse da singulti: sta piangendo.
Nervi a pezzi il Panizzi, cominciamo male! Ha una trentina d’anni o poco più. Un metro e ottanta direi, dinoccolato, veste casual ma con gusto. Ha i capelli castani chiari, corti, scriminatùra a destra; gli occhi scuri e lo sguardo carico, espressivo; il naso leggermente aquilino, le labbra piene e atteggiate a un sorriso di sufficienza. Ha le mani che sembrano due badili e le unghie delle dita sono chiaramente rosicchiate.
- Riproviamo, va bene? Beppe, diamine, mi guardi!
- Ma non vedi in che condizioni sono, che scoppio a piangere per una cazzata?
Siamo passati al “tu”: per carità, mica mi formalizzo, ma mi metto sul chi vive.
- Lo vedo, lo vedo; ma vogliamo cercare di capire il motivo o sei venuto solo per regalarmi i tuoi dollari?
- Me ne fotto dei dollari, dottore, sto male, la vuoi capire o no?
Ha preso un tono quasi aggressivo e la cosa non mi piace più:
- Giovanotto…usa un altro tono.
- Ho dei problemi, va bene, e non riesco a risolverli da solo, non so con chi parlarne, ecco perché sono qui. Punto. Già essere qui nello studio mi fa sentire a disagio.
Ha quasi gridato e questo non lo posso accettare:
- Alt! Non sono disposto a farmi urlare in faccia dal primo venuto. Per favore, esci dal mio studio. Quando si comincia così male è meglio troncare subito. Evidentemente non sono la persona giusta per te, non posso aiutarti.
Nei suoi occhi passa un lampo di frustrazione, di rabbia repressa:
- Eccolo qua il luminare della scienza, tutti uguali loro: appena uno va un po’ fuori dal loro seminato, ecco che lo mollano col culo per terra.
Sta urlando ora.
- Esci subito di qui!
- Ma vaffanculo va, dottore del cazzo....
- Fuori...o chiamo la security del palazzo.
Se ne va sbattendo la porta e io scivolo nella poltrona sensibilmente più stanco di prima.
Inaspettatamente, al suo viso stravolto dalla rabbia e dalla frustrazione si sovrappone quello levantino, segnato dalle rughe e bruciato dal sole di mio padre.
- Bella proiezione - penso con expertise professionale di fronte al suo ghigno sarcastico:
- Ne vogliamo riparlare, dottore? - mi domanda lui sarcasticamente.
Rivedo Panizzi chinare il capo, singhiozzare silenziosamente e ripenso al mio vecchio, a quello che diceva, alle sue improvvise collere, alle sue malinconie che duravano giorni e giorni.
Si però ci sono modi e modi. Già questo chiamarsi per nome, poi il darsi del tu, la maggior parte dei miei colleghi non l’avrebbe permesso. Se poi uno si mette anche a urlare...
Metto i documenti sulla scrivania della mia assistente e lascio una nota:
“Rispedire a Panizzi, urgente! IMPORTANTE: informare la banca di non accettare eventuali suoi accrediti.Grazie.”
Mandy sa cosa questo messaggio significa: nessun ulteriore appuntamento per Panizzi.
Slaccio la cravatta e metto la testa sotto l’acqua fredda: ho bisogno di rinfrescarmi la cervive.
Mi ricompongo, indosso l’impermeabile ed esco.
Non ho impegni con Matilda stasera, è fuori con le amiche. Un aperitivo con un piatto di formaggi al Cormoran e poi a casa: mezz’ora di Coltrane, un sorso di cognac e poi sotto le coperte.
Domani mi aspetta una giornata pesante: ho un’udienza in tribunale, un tipo che si sta giocando la carta dell’incapacità di intendere e di volere ma che secondo me, intende e vuole. Un furbetto molto pericoloso che interpreta il ruolo del tipo “alternativo esoterico” e che in quanto tale vorrebbe far credere al giudice che ha visto e udito Gaki, un demone della mitologia giapponese, che gli ordinava di accoppare e fare a pezzi la moglie usando la katana che teneva in una teca in salotto. E lui, di fronte a un ordine di Gaki, non ha potuto far altro che obbedire.




2
Rilassarmi significa staccare totalmente la spina, specialmente dopo un finale di giornata del genere.
Entro al Cormoran, saluto Derek, ordino un Beaujolais con un assaggio di fromagerie e vado a piazzarmi davanti al televisore dove a quest’ora c’è una selezione delle partite della Champions League. E questa è cosa tutt’altro che scontata in un bar di Melbourne, all’ora dell’aperitivo serale.
Il bar, che ha un distinto flair europeo, a quest’ora è sempre abbastanza affollato dal popolo degli uffici della city, quelli che, come me, sciamano fuori dalle torri di acciaio e cristallo alla ricerca di un’ora di relax e di chiacchiere leggere.
Sono seduto da non più di dieci minuti e la mia attenzione è interamente assorbita dai goals di Milito, Ribery e Fernando Torres alternati al gusto di un ottimo maroilles di Lille, quando sento un picchiettio sulla spalla.
Mi volto, il mio viso atteggiato a curiosità, si, ma anche a una punta di fastidio e chi mi trovo davanti? Si, proprio lui: Panizzi.
Ha un’espressione da cane bastonato ma mi guarda fisso negli occhi e mi sta tendendo la mano:
- Mi scusi, dottor Calvini, non dovevo, sono seriamente mortificato, la prego accetti le mie scuse, poi le tolgo il disturbo.
È sincero, si vede che è sincero:
- Va bene Panizzi, accetto le sue scuse.
- Grazie dottore. Mi scusi ancora per tutto questo casino. Buonasera
- Buonasera - rispondo d’istinto ma poi mentre lo guardo allontanarsi, il viso abbronzato e irridente del mio genitore fa nuovamente capolino e silenziosamente mi domanda:
- E tu saresti quello pronto ad aiutare chiunque, anche a gratis? Che poi, nota bene, è italiano come me, ha dei problemi, ha bisogno di una mano per uscirne. Quando eri all’università, a mie spese, venivi a casa e ti sbracavi “io di qua, io di là” dicevi sempre, che i miei soldi erano ben spesi, che volevi capire i miei problemi, che tu avresti trovato una spiegazione: eccoli qua i miei problemi, e allora?
- Ok, ok , va bene - lo interrompo mentalmente - basta che non t’incazzi...
- Panizzi..Panizzi…Beppeeee..- quasi urlo per attirare la sua attenzione, ché c’è gente, confusione, chiacchiericcio allegro e rumoroso.
Si volta e mi guarda con uno sguardo interrogativo. Indico la sedia accanto a me, lo sto invitando.
Lui fa cenno a sé stesso con un’espressione sbigottita, io confermo con un cenno del capo. Ritorna sui suoi passi, scosta la seggiola, si mette seduto e mi guarda interrogativamente.
- Cosa bevi - gli domando.
Sono un tantino in imbarazzo, e credo si noti; però considero che siamo pari: lui mi ha mandato a quel paese e io l’ho cacciato, lui si è scusato e io l’ho invitato al mio tavolo.
- Cos’è - mi chiede facendo un cenno verso il mio calice.
- Beaujolais dell’anno scorso, Côte de Brouilly, sopra Lione: non male.
- Però, un gotto di beaujolasis? Va bene, ma il prossimo giro è il mio.
Sorrido e faccio segno a Derek. Arriva subito con un altro calice, un piattino e le posate per l’apetizer del mio ospite.
Lui solleva il bicchiere proponendo un brindisi e mi guarda fisso:
- Grazie. Che lei avesse accettato…
- Ma non ci davamo del tu?
Sorride:
- Già il fatto che hai accettato le mie scuse sarebbe stato più che sufficiente; ora mi inviti anche al tuo tavolo: lo considero un onore.
- Bravo, suoni bene il violino - lo sfotto io - ma non ringraziare me, devi tutto a mio padre.
- A tuo padre? Il signor Calvini? Dov’è, gli offro volentieri un gotto, con un cognome così apprezzerà sicuramente.
- Infatti, avrebbe sicuramente apprezzato, ma purtroppo non è più di questo mondo.
Ridiventa serio immediatamente:
- Scusa, non volevo essere irriverente.
- Nessun problema, non potevi sapere. Era un dipendente savonese della Lloyd Triestino, lavorava sulla Guglielmo Marconi; a forza di portare giovani fanciulle che emigravano con le rispettive famiglie in Australia, finì con l’innamorarsi di una di loro, mia madre, e in Australia ci si stabilì, nel 1963. Era un bravo ufficiale di macchina, mio papà, ma all’inizio dovette adattarsi a fare quel che gli capitava. Poi però, a forza di sacrifici, riuscì ad aprire un’officina meccanica tutta sua e si sistemò finanziariamente. E si levò anche parecchie soddisfazioni, incluso un figlio laureato, il primo della sua progenie. Eppure ha sempre avuto nostalgia per la sua terra, per quelle montagne, per il suo dialetto, per i piatti tipici e si, anche per i suoi gotti. Dai Beppe, ricominciamo da te adesso, ma in versione rilassata, senza vincoli.
- Davvero? Sapessi quanto ne ho bisogno.
- C’è una saletta nel retro…
- Ma no dai, sciù megu - ribatte ridendo - qui c’è rumore, è vero, ma è meno formale, mi sembra di sentirmi più a mio agio.
- Come vuoi. Dunque, riprendiamo dallo strizzacervelli.
- Scusa, io non volevo...
- Scusato! Allora: si, strizzo i cervelli io. E tu cosa fai?
- Lavoro in un deposito merci, la chiamano logistica adesso: camions, containers, dogane, cose così. Ma tuo padre ti chiamava Arthur o Arturo?
- Arturo mi chiamava, come mi chiami tu, ma non divaghiamo, sono io che chiedo le cose.
- Certo, d’accordo - replica sorridendo cerimoniosamente - lo so che sei tu che dirigi, non ti preoccupare, sei tu che hai il know how no? Yung, Freud, l’archetipo, l’Es e via discorrendo; sono un blue collar ma ogni tanto un libro lo leggo anch’io.
- Di dove sei Beppe?
- Sono di Monterosso, vicino Spezia, un centinaio di chilometri da Savona.
- Caspita, le Cinque Terre! E quando sei arrivato qui dall’Italia?
- Sono qui da quasi due anni, ventidue mesi per l’esattezza; ho trentaquattro anni, convivo con una donna. Lei è di qua, cioè è tailandese, ma ha il passaporto australiano.
- Come va la relazione?
- A dirla tutta avrei contato su un maggior sostegno morale da parte di lei. Ma è anche vero che io ho sottovalutato il passo che facevo a venire qui. Comunque, a parte questo, bene direi.
- Il lavoro? Tutto a posto?
- Ho sempre fatto quello, si, non mi lamento. So come muovermi, pagano bene…
- E allora Beppe, cosa c’è che non va?
- C’è che non riesco a centrarmi, a stabilizzarmi.
- Cioè?
- Non riesco a superare il senso di smarrimento che mi è preso qualche mese dopo che sono arrivato. È più di un anno ormai che mi sento come se fluttuassi come un palloncino, come se non avessi radici.
- Per quello hai scritto che ti senti disadattato?
- Si: un po’ qui, un po’ là.
- Un po’ là...?
- In Italia.
- E così hai pensato: vado lì, tanto quello, cioè io, ascolta la gente di mestiere, gli pago la parcella e vediamo cosa succede, è così?
- No, non esattamente. Ho cercato fino a che non ho trovato un cognome italiano. Volevo parlare dei miei problemi in italiano con un dottore italiano o di origine italiana.
- Perché?
- Perché penso che il mio malessere sia derivato da…non so come dire…da una questione di doppia cultura, se mi passi l’espressione.
- E hai pensato che una persona nata altrove e che si è integrata qui oppure nata e cresciuta qui ma con un retroterra culturale diverso potesse capire meglio il tuo malessere?
- Esattamente.
E bravo Panizzi: bingo! Si perché quello che sta dicendo non tira in ballo solo le lune storte di Giobatta Calvini detto Joe, macchinista navale, quando snocciolando cristi, santi e madonne si chiedeva chi glielo avesse fatto fare a trasferirsi in Australia. Qui lo scenario si allarga a suo figlio, cioè a me, e a tutte quelle situazioni, quegli stereotipi, quelle prese in giro, quelle liti, quelle botte prese e date prima che lo stile, la moda, il design, l’Opera, la dieta mediterranea e giù giù fino al ciao bello, al cappuccino e agli spaghetti alla bolognese diventassero parte integrante di questa cultura. Prima che l’essere Italian non fosse più una cosa di cui vergognarsi, in altre parole.
Faccio fatica a interrompere il flusso dei ricordi, a contenere il magone, ma devo ricondurre la discussione sui dei binari un minimo professionali:
- E parlarne con un amico, un parente, la tua donna, qualcuno?
- Non ho amicizie così intime qui in Australia, solo cose abbastanza superficiali, anche tra gli italiani che frequento qui. Io qui sono solo e la famiglia della mia donna è in Tailandia; lei a volte mi ascolta ma a volte dice che sono un piagnone rompiballe e che se avessi passato quello che ha passato lei, che rischiava di finire in un bordello a Bangkok, non farei tutte ‘ste storie. E poi il mio inglese è quello che è e spiegare certe cose mi risulta ancora più difficile.
- Come vi siete conosciuti?
- Era in vacanza in Italia, un classico. Siamo stati un paio d’anni a Monterosso e quando è nata la bambina abbiamo deciso di venire qui.
- A sei padre, complimenti! Quindi ricapitolando: all’inizio tutto si mette sui binari giusti, no? Nel privato tutto bene: le cose tra di voi vanno bene e avete una bella bambina; non hai problemi di permanenza perché sei in regola con la legge e hai trovato un lavoro che ti va bene; lei anche lavora e quindi siete tranquilli economicamente. In una parola, sei contento della decisione che hai preso, giusto?
- Giusto! E poi era tutto nuovo, tutto interessante. Poi, ti ho detto, vengo da Monterosso, un paesino. Si che lavoravo all’arsenale a Spezia, ma non è che Spezia sia chissà che, intendiamoci: qui è una metropoli.
- E poi Beppe, cosa succede? Quanto dura l’idillio, se vogliamo chiamarlo così.
- Si, idillio rende l’idea. Quanto dura? Quattro, cinque mesi. Ne berresti un altro - aggiunge sorridendo.
- Si ma andiamoci piano, sai, sono in servizio…- e lo guardo da sopra alle lenti atteggiandomi a professorone e provocando la sua ilarità.
Altro giro di Beaujolais, assaggio di salumi umbri questa volta, e riprendiamo “la seduta”.
- Poi, tutto di colpo qualcosa cambia?
- No, non tutto di colpo, un po’ alla volta. E poi non è che cambia, non è che il buono che c’era prima di colpo scompare. È come se a questa realtà reale pian piano se ne sovrapponesse una virtuale, una che è solo nella tua testa. Anzi più che di sovrapposizione dovrei parlare di realtà parallele ed è come se…
- Come se?
- …come se le carte si fossero mischiate, adesso, e la nostalgia facesse da specchio deformante.
- Fammi capire.
- Significa che dopo qualche tempo il senso di mancanza si fa più forte e più frequente e uno comincia a fare paragoni, a fare confronti.
- E cosa succede, allora?
- Succede che cominci a rifiutare la nuova cultura mentre avevi già avviato un processo mentale per integrarti, per accettarla. E in fondo continui a farlo, devi continuare perché, belin, ci devi pur vivere lì, in quel posto.
Ho sorriso a quel suo “intercalare” e l’immagine di Joe Calvini, l’ufficiale di macchina, è di nuovo balenata nella mia mente.
- Capisci Arturo? Paragoni la cultura del paese che ti ospita e quella tua originaria e finisce che a volte pensi di non fare più parte né di una né dell’altra.
Alla mia mente ritornano frammenti di certi discorsi che il vecchio mi faceva, quando mi parlava dei suoi posti; quando mi diceva che era impossibile per lui non fare confronti; quando mi raccontava delle innumerevoli volte che si era domandato che cosa ci stava a fare lì, ma poi aveva ripensato al paesotto vicino a Cairo Montenotte, alle prospettive - nulle, praticamente - che gli aveva dato, all’imbarco, agli anni di marina.
- Il casino è che idealizzi - riprende Beppe - magari ieri eri lì e rimpiangevi le occasioni che avevi avuto per cambiare aria e che non avevi preso al volo e oggi piangi malato di nostalgia rimpiangendo i luoghi, le persone, gli affetti seri, le amicizie. Ma anche belinate: un piatto tipico, un bicchiere di Gavi, un trancio di focaccia, cose minime, ma improvvisamente diventate importanti, imprescindibili, mi spiego?
Beppe, persona sagace e dotata di sensibilità non comune, sa di aver inchiavardato la mia attenzione, a quelle sue considerazioni, a quei suoi desideri innescando la rielaborazione dei ricordi legati a mio padre. È come se decidesse di affondare il colpo quando finalmente afferma:
- Si dondola, un po’ di qua e un po’ di là, tra la necessità di sopravvivere integrandosi nel nuovo ambiente e il rifiuto di esso dettato dalla convinzione che il luogo in cui siamo nati sia il nostro vero posto. Così finiamo per descriverlo, per identificarlo come “il luogo” per eccellenza. Anche se in fondo, dentro di noi, sappiamo che non lo è mai stato, non lo è e non lo sarà mai.

* * * * * * *

- No, no, no...stop - urla nel megafono Libby Lagerboim, il regista - Anthony devi metterci più patimento, più senso di perdita, di sconfitta, hai capito?
- E non mi hanno mica tagliato le palle - sbotta Anthony provocando una risata generale.
Anche Libby, pur compreso nella parte di creativo, non può fare a meno di sorridere:
- Vabbè dai, facciamo la pausa pranzo, quando torniamo la rifacciamo e poi cerchiamo di girare la scena finale.
Generale sospiro di sollievo. Il corpulento direttore si allontana dandoci appuntamento tra due ore qui in questo bar di Carlton, la “little Italy” di Melbourne, che la produzione ha scelto per rendere più veritiere le scene del telefilm che stiamo girando.
Io, il dottor Calvini, nella realtà sono Vince Palmisano e Panizzi, “lo squilibrato” si chiama Anthony Visentin: attori professionisti, studi al N.I.D.A. di Sydney, lunga gavetta, background italiano, calabrese io veneto lui, ma cosa lo dico a fare, con due cognomi così. Nati e cresciuti nello stesso quartiere, nella stessa via, con tanti altri italiani. Venuti su a spaghetti al pomodoro, polpette e calci in culo quando sgarravamo.
Perché proprio noi due? Perché ci ha voluti espressamente John Lanteri, lo scrittore, si, quello famoso, autore di best sellers, anche lui di origine italiana. L’uomo della strada compra i suoi libri, va a vedere i film e gli allestimenti teatrali tratti dai suoi lavori, non si perderebbe per niente al mondo un suo intervento televisivo. Insomma, quel che viene comunemente definito un maître à penser.
Del resto è lui che ha scritto la novella, è lui che ne ha tratto la sceneggiatura televisiva, è lui che produce il film. E chi lo contraddice quello? È una potenza: tutto quello che tocca diventa oro. Un tipo strano, milionario, chiacchierato, dicono che sia gay; uno di quei personaggi che può permettersi di trasformare ogni suo delirio in un “qualcosa” che fa tendenza. E che dunque vende!
Come questa storia, questo deliro appunto, della doppia appartenenza culturale, del di qui e del di là, della forte nostalgia che sfocia in una patologia psichica di cui stando a lui, soffrirebbero tutti gli immigrati. Ma dove? Ma quando? Ma chi? Credetemi: sono tutte cazzate!



© Danilo Sidari 2013