Saturday, July 9, 2011

STELLIN

1

E si! Non era come le altre volte, che ne uscivo distrutto, con la mente confusa e il cuore a brandelli. E con un’acrimonia verso il genere femminile che si sarebbe trascinata per un tempo indefinito. No! Stavolta c’era una sorta di consapevolezza, un riuscire a guardarsi – e a guardare l’accaduto - dal di fuori. Cosa questa che rendeva il tutto meno problematico e, come dire, più ammorbidito, dai colori più soffusi, dove trovavo una spiegazione un po’ a tutto l’accaduto. Dove riuscivo abbastanza agevolmente a dare una sequenza cronologica ed emozionale agli avvenimenti, guadagnandone in lucidità e potendo quindi cogliere la connessione tra le varie cause ed i vari effetti.
Per prima cosa non potei non darmi del fesso per essermi indebolito fino al punto di perdere la mia centratura, fino al punto di aver nuovamente fatto finta di non sapere quanto dannoso sarebbe stato risalire sull’ottovolante delle emozioni, su e giù a seconda degli stati d’animo altrui. E  questo, ça va sans dire, mi creava un senso di colpa verso me stesso, un rimprovero, una tale e sottile ma così acuta sensazione di biasimo che decisi che era meglio bere per accentuarla e una volta amplificata a dovere, e anestetizzata, sezionarla chirurgicamente, capirla a fondo e definitivamente. Ché chi sa dell’arte del bere, sa bene cosa intendo: non si tratta di obnubilarsi ma anzi di rendere spietatamente lucide le proprie riflessioni.
E in effetti bevvi!
Me ne andai in quel baretto sul belvedere Sirio, mi sedetti sulla terrazza panoramica e ordinai un bel Cabernet Sauvignon. La scelta di tal vino mi riportò alla mente un’amica di tempi andati, non sospetti, che me ne aveva regalato un paio di bottiglie raccomandandosi di stapparle solo in sua presenza. Lei si era fatta viva più di una volta chiedendomi se non fosse il caso di assaggiare quel 2006 della Barossa Valley, Australia, ma io, preso dai miei risoluti propositi di restare fedele alla mia amante virtuale o, per meglio dire, galattica, avevo sempre declinato i suoi inviti. Le sue “chiamate” telepatiche si erano così diradate e infine erano cessate del tutto, l’amante galattica era fuggita con un rappresentante di propellente atomico ed io, a quel punto, mi ero sentito autorizzato a stappare le bottiglie e gustarne il contenuto.
E reiteravo il rituale anche quella sera stellata – ah ah ah....buona questa – su quella splendida terrazza dalla vista imprendibile!
Ero dunque lì che sorseggiavo con calma quel nettare terrestre – ero ormai alla fine della prima bottiglia - quando la vidi avvicinarsi. Procedeva a grande velocità col suo incedere spiraleggiante verso il bar, emettendo lingue di energia dovute alle continue esplosioni che i suoi poderosi ammassi gassosi provocavano.
I suoi cerchi concentrici assumevano via via colorazioni che potevano variare dal blu cobalto striato di turchese  fino ad un tenue verde acquamarina, da un acceso rosso porpora fino a spegnersi in un soffice rosa puntellato di macchie color terra di Siena bruciata.
Quando fu giunta a circa due anni luce da noi, il barista, un asteroide proveniente dalla costellazione di Andromeda che per amore aveva deviato la sua traiettoria originale ed era poi stato abbandonato dall’amata al suo destino, le ingiunse di fermarsi:
- Non vorrai mica farci precipitare tutti nella tua forza di gravità – le chiese con un certo disappunto.
- Dimmi cosa bevi: ci penserò io a farti servire al tavolo – le intimò con fare deciso.
La bella galassia impiegò qualche migliaio di anni per fermarsi e quando, pur continuando ad emettere sbuffi di gas coloratissimo, finalmente si arrestò, ordinò con voce una femminile rauca, terribilmente sexy, un gintonic.
Naturalmente, e malgrado la finalità terapeutica che volevo dare alla mia bevuta, non intendevo in nessun modo non godere dell’aspetto, come dire, ludico che sapevo che quello che stava accadendo mi avrebbe procurato. E per far ciò mi accomodai meglio sullo sgabello e affinai la mia attenzione.
L’asteroide, un certo Ciro, presa un’aria senza dubbio professionale, mise nel bicchiere tre cubetti di ghiaccio e versò poi un’abbondante dose di gin. Quindi si chinò e presa dal frigo la bottiglia dell’acqua tonica ne versò a sufficienza ad allungare lo spirito.
Io, nel frattempo, mi feci portare un paio di piatti da gustare mentre sorso dopo sorso, degustavo l’eccellente rosso australiano: una focaccina alle erbe, un insalatina di rucola nostrana e delle scaloppine di vitello ben condite da una salsa al marsala e curry.
Ma ciò malgrado, ero consapevole che il vino mi avrebbe predisposto ad una insolenza che in quanto tale e con un minimo di esercizio psicomotorio, mi avrebbe sicuramente spinto, con una certa strafottenza,  a corteggiare quella meravigliosa creatura galattica apparsa all’improvviso ed inaspettatamente.
Gli sguardi insistenti che la galassia mi rivolgeva fecero, per così dire, precipitare gli eventi. L’approccio fu dei più classici:
- Sei di questi paraggi – le chiedo tronfio.
- No, veramente... – mi risponde con una certa titubanza
- Vabbè va – dico io – soprassediamo. Come ti chiami? Io sono Ampelio.
- Ciao Ampelio, piacere. Io mi chiamo CB 38 Bartlett. Come mai da ste parti?
- Mi piaci e sarò sincero con te: una tipa, una certa Sonia, una stringa di neurone molto attraente ma altrettanto stronza, dopo mille promesse d’amore mi ha mollato per fuggire con un fotone. Sono qui per bere e dimenticare. E tu? O cribbio, scusami, gradisci una scaloppina?
- No grazie. Sei molto gentile ma ho un crampo allo stomaco. Io? Una storia simile: un sole, una piccolo astro secondario, senza importanza ma che a me piaceva un sacco. Un mucchio di promesse e poi un giorno passa una stellina d’avanspettacolo, gli fa due moine e lui...via! Mai più visto da allora!!
Insomma ora non vorrei tediarvi ma è andata che a un certo punto.....

- continua

Danilo Sidari - 2011

Thursday, July 7, 2011

Livio

o delle nefaste decisioni che lo iodio, respirato in notevoli
quantitativi, induce nella mente di certi pescatori.

1


- Cosa fai stasera?
La domanda di Livio, quasi fosse telepatica, mi coglie proprio mentre sto cullando la mia mente con l’idea di un’ipotetico appuntamento con quella ragazza svedese che ho conosciuto ieri sera: una cascata di capelli castano scuro su due occhi verdi come smeraldi e un sorriso tanto ingenuo quanto invitante.
Siamo seduti ad un tavolo sulla terrazza del Manola e sorseggiamo un pastis sgranocchiando arachidi salate.
Il sole è ancora alto in cielo e il suo riverbero ferisce l’occhio nudo, ma l’afa del primo pomeriggio è ormai mitigata dalle prime leggere avvisaglie di brezza serale ponentina.
Ai tavoli vicini, protetti da ombrelloni multicolore che publicizzano una marca di gelati, le compagnie dei bagnanti in abiti più o meno succinti ci offrono, inconsapevoli, estemporanee scenette teatrali di rara intensità emotiva. Tra granite al limone e birre alla spina, flirt adolescenziali e pruriginosi sguardi extra-coniugali con conseguenti litigi, i racconti piccanti e le ricette di cucina, la Fiat 127 appena uscita o la Ducati Scrambler 450, la formazione del Milan, della Juve o dell’Inter e, in qualche caso, il governo ladro, i vacanzieri di massa consumano alla luce calda del sole d’agosto, a volte reiterandoli, gli stress accumulati in un inverno di nebbia padana.
Ripenso alla festa in pizzeria di ieri sera: una grande tavolata alla quale erano seduti, in rigoroso ordine di gradimento reciproco e di approfondimento della conoscenza, i più autorevoli componenti della legione dei cucadores della costa e le partecipanti scandinave ad una delle tante vacanze in Riviera offerte da un’agenzia turistica svedese. Non mi capacitavo di come io, che cucador non sono mai stato, fossi stato invitato, ma l’esuberante numero di presenze femminili ha subito chiarito i perché dell’ospitalità dimostratami.
Gli spaghetti allo scoglio e il Gavi ben freddo hanno il potere di creare atmosfere intriganti in un tempo relativamente breve ed è così che prima ancora che la mezzanotte fosse suonata, Ingrid, la mora con gli occhi verdi, ed io ci siamo ritrovati soli, seduti alla tavolata ormai deserta a parlare di noi.
C’è stato anche un’attimo in cui la conversazione ha assunto sfumature più pruriginose: è stato quando si è accennato al fuggi fuggi del dopocena degli altri invitati e a come,  presumibilmente, si stessero intrattenendo  in quel momento.
Non è successo niente tra noi, nessuno dei due ha forzato la situazione, ma lì, secondo me, a giudicare dallo sguardo che ci siamo dati, ci siamo concupiti un tantino! Più tardi lei, la voce resa calda dal vino, mi ha augurato sorridendo la buonanotte in italiano con un accento che sembrava uno swing di Nat King Cole, tanto mi è parso dolce. Mi ha poi sfiorato le labbra con un leggerissimo bacio ed è salita nella sua camera, senza accennare ad invitarmi.
Sono uscito dal locale e dolcemente mi sono fatto risucchiare dal flusso ormai rado dei passanti che dalla darsena alla torre saracena, in un instancabile andirivieni, ogni sera scrutano i volti della notte rivierasca alla ricerca di un’emozione da raccontare nelle future lunghe serate invernali fatte di nebbia uniforme oppure di quella gelida tramontana che spazzola le spiagge e fa ghiacciare i ranuncoli e gli anemoni coltivati in pienaria.
Ripensando alla serata, lentamente sul mio viso si è disteso un sorriso: c’era aria di promessa, frizzare di sentimenti, adrenalina, vita: mi sentivo bene!
E mi sento bene: la sensazione di benessere si protrae anche oggi e non faccio fatica ad ammettere che mi sento in pace col mondo!
- Stasera spero di vedere una persona - finalmente rispondo.
- Una donna – si informa il Livio con tono ammiccante.
- È svedese, si chiama Ingrid…ma è diversa dalle altre…- e gli lascio interpretare il mio silenzio.
Lui non interpreta, ha ben altro per la testa:
- Te l’ho chiesto perché volevo mettere a bagno la barca. Ieri ritornando dal mercato dei fiori mi hanno chiesto un po’ di pesce da porzione, sai i due soliti ristoranti. Ma mi servirebbe una mano.
- Vuoi uscire stasera e salpare i palamiti? Se il mistrale non scende al crepuscolo lo sai cosa fai, no?...balli la rumba tutta la notte.
- Scende, vedrai che scende. Poi domattina prendiamo il caffè, tolte le spese ci prendiamo un centone a testa e andiamo a casa a stirare la schiena e a prepararci per una nottata di vita sulla costa.
- Un centone a testa? A che santo ti sei  raccomandato per sperare di tirar sù in una notte, con i palamiti,  tutti stì naselli e stè orate? -
- A sant’Evinrude settanta cavalli! Santi, palamiti….- taglia corto e sorride vago. Poi tira giù un lungo sorso di anisetta ghiacciata.
L’offerta è allettante: lavoro solo d’inverno imballando fiori che finiscono sulla tavola delle famiglie di Francoforte, di Colonia, di Monaco di Baviera e centomila lire sull’unghia, in estate avanzata, dopo due mesi di disoccupazione e con altri due mesi di riposo forzato come prospettiva, sono buone come il pane!
Però nel frattempo è comparsa Ingrid! E a me, che una donna che mi sopporta non ce l’ho e che tengo ancora da conto l’emozione che si prova nel ricevere un sorriso che sa di promesse, la cosa non mi lascia certo indifferente.
Livio sembra leggere la mia indecisione:
- Dai vieni! Poi domani la inviti sulla spiaggetta di Punta Bellene:  pesce fresco sulla griglia, una bottiglia di Vermentino te la dò io e…migliore dichiarazione di così!
Da buon vecchio battitore della costa, non ha trascurato niente: intanto i soldi e poi la spiaggetta poco frequentata, il cibo, il vino, la complicità, l’intimità. Ha giocato le sue carte e sono tutte come a-tout di una belotte marsigliese giocata mentalmente.
Ed ha vinto!
- Va bene vengo! Però voglio le due orate più belle del mazzo.
- Se va come dico io, ti ci copro di orate…- ridacchia soddisfatto.
Beve in un sorso il resto del suo pastis e alzandosi si accomiata:
- Vado a preparare il brumezzo. Devo prendere anche un po’ di nafta: ci vediamo alle dieci alla darsena. Portati un’incerata.
Risale sulla millecento familiare sul cui portapacchi è assicurata una cesta da garofani sul cui fianco, con vernice rossa, ha scritto semplicemente “Livio” e riparte mollemente, come l’atmosfera di questo tardo pomeriggio d’agosto suggerisce.




2
Davanti ai miei occhi,  sul bagnasciuga, a non più di trenta metri, la venere scandinava gocciolante dopo il bagno rinfrescante pomeridiano, chiacchiera allegramente con la sua amica e in un paio di occasioni fà cenno nella mia direzione.
Il vento intanto, va via via rinforzandosi.
Alzo il bicchiere in segno di invito: dopo un breve conciliabolo, le due si salutano e Ingrid viene a sedersi al mio fianco.
Mi coglie imbarazzato, e il rossore sulle mie guance lo testimonia, a osservare la sua fresca e dirompente sensualità, celata a stento da un minuscolo bikini. Distolgo lo sguardo e con tutte le doti di nonchalance di cui sono in possesso cerco di svicolare da una situazione difficile da gestire.
- Che fai, mi guardi – mi chiede tra il divertito ed il lusingato.
- Scusami, Ingrid, ma…ma sei così bella! E’ difficile resistere. Del resto non sono l’unico ad ammirarti!
In effetti Mario, il veterano dei playboys della zona, dopo aver messo sul cavalletto il suo Vespino 50, è venuto a sedersi a un tavolo poco lontano, si è tolto il cappellino da nostromo e passandosi ripetutamente le dita a rastrello tra i capelli lunghi e lisci, senza ombra di imbarazzo ha preso ad osservarci fissamente. O per meglio dire, ad osservarla fissamente, come a voler ad ogni costo catturare il suo sguardo.
Lei non è indifferente e ogni tanto, di sottecchi, ricambia.
- Cosa pensavi di fare dopo cena - le chiedo introducendo così il discorso che mi sta a cuore di fare.
- Le ragazze vanno in compagnia per una passeggiata ed un gelato e poi qualcuno dei ragazzi ha proposto di continuare la serata al Menestrello e di concluderla con un bagno a mezzanotte, sotto la luna: very romantic! Vieni anche tu?
- Proprio di questo volevo parlarti. Mi hanno proposto una notte di pesca in barca. Vorrei andarci: mi piace e c’è qualche soldino da prendere.
- A pescare di notte? Su una barca? Che bello! Portami con te!
Comincio a sentirmi a disagio e lei ora mi incalza:
- Che vuoi che mi importi del gelato e della musica del Menestrello? Posso fare un’esperienza nuova, bellissima, veramente da raccontare: andare a pescare, di notte, sul Mediterraneo. E poi - conclude - possiamo stare insieme, no?
Ora sono in difficoltà! Anche perché dovrei spiegarti che in barca è un po’ dura, che bisogna sapersi muovere e fare la propria parte; che Livio, quando pesca, diventa un uomo intrattabile e che anche il minimo errore lo fa andare su tutte le furie; che neanche lontanamente si riesce a fargli accettare il pur minimo cambiamento di programma. Figuriamoci poi, con la testa che ha, una donna in barca: sacrilegio!
Dovrei raccontarti, mio insperato refrigerio in un tempo e in un luogo aridi di sentimento, di come sono combattuto nel decidere se in questo momento ho più bisogno dei soldi di Livio o delle tue tenerezze.
Ma taccio, almeno per un po’, e sorseggio il mio aperitivo.
Mario invece sorseggia una birra e continua a guardare. Io chino gli occhi ché giocoforza la mia decisione l’ho presa. Spero che essa non la faccia contrariare troppo.
- Ascolta, Ingrid, è lavoro! Ne ho bisogno! È solo per questa notte. Stasera puoi divertirti con la compagnia e ballare e fare il bagno notturno…
- Però tu non ci sarai - insiste lei.
- Lo so! Scusami, mi spiace di darti subito una delusione e poi non mi lusingare ché non è il caso.
Taccio un attimo e riprendo la mia arringa improponibile ma necessaria.
-  Domani noi rientriamo all’alba, prima che tu ti sia svegliata. Mi faccio prestare la Vespa da qualcuno e ti porto in una spiaggetta da favola, cuciniamo il pesce appena pescato, beviamo il bianco fresco, facciamo il bagno e stiamo tutto il giorno insieme, d’accordo?
Il suo abbraccio tenero, stempera subito l’impalpabile tensione che si stava creando.
Poi non so bene come accada, forse quel pizzico di eccitazione provocata dal suo seno turgido che sento premere contro il mio torace, ma mi ritrovo a baciarla con un certo trasporto: lei ricambia!
Ci sciogliamo dall’abbraccio coinvolgente: lei mi sorride ma poi, provocandomi una punta di gelosia che a stento maschero con un’espressione di indifferenza, si volta in direzione di Mario.
Lui, cappellino in testa, mette in moto il Vespino, sorride nella nostra direzione e se ne va.
- Vengo a prenderti alle dieci – dico con un pizzico di astio nella mia voce. Ma poi, l’emozione appena provata fa addolcire il mio tono:
- Grazie di quello che mi dai: ne ho bisogno, mi fa bene all’anima!
- Sei un tesoro – mi lusinga e sinuosamente torna in spiaggia dalla sua amica.


3

Livio aveva ragione: il mistrale, che al tramonto porta fragranze di oleandro misto all’odore del fritto di pesce dei ristoranti sul lungomare, è calato del tutto lasciando il posto ad una brezzolina che spira da sud. 
In darsena le facce sono quelle di sempre e i discorsi sono sempre gli stessi: il prezzo delle strelitzie e delle calle sul mercato, la barca da calafatare, la vendita delle acciughe sotto sale, la vigna del Vermentino, intercalati dalle solite amenità riguardanti l’emisfero femminile e da qualche battuta sulla DC e su Gimondi che quest’anno ha vinto il Tour de France.
Le lampare sono già uscite e sul pontile fervono gli ultimi preparativi di chi, con barche più piccole, salperà i palamiti o i cento metri di tremaglio e magari due o tre  nasse per aragoste.
Le coppie dei pescatori, perlopiù indissolubili, formate dal capobarca e dall’aiutante, si affrettano a caricare gli strumenti del mestiere ed i contenitori di plastica con il pastone per i pesci.
Visi segnati dalle rughe del tempo, iscuriti dal sole dell’estate passata all’aperto e da antichi retaggi saraceni. Mani callose che si muovono brusche ma con precisione millimetrica per compiere gesti mai inutili e brevi frasi  puntualizzate quando da scoppi di risa, quando da blasfeme invocazioni.
Minetto esce con lo Squalo, Turi con il Postino, Fabio con il Patreternu e Livio con me. Ci sono anche, sul pontile dei ricchi, Andrea U Capu con Sabrina e Ciccin u funtané che portano a Bastia, a pagamento, il sedici metri di un qualche industrialotto brianzolo e, più isolato, un fustaccio dalla parlata nordica in compagnia di Armandino: vanno per una romantica escursione notturna a bordo della pilotina di quest’ultimo.
Livio accende il quadro, la rice-trasmittente, e fa scaldare le candelette del diesel: trenta secondi e il suono sordo del motore attutito dall’acqua gorgogliante dello scarico, riempie le nostre orecchie. Stacco la gomena dall’ormeggio, la arrotolo e l’appendo ad un gancio a prua. Il mio capobarca accende una sigaretta, manovra per liberarsi dell’abbraccio laterale di altre due imbarcazioni ed esce molto lentamente dall’intrico di natanti cullati dalle piccole onde che provochiamo al nostro passaggio.
Quando è al largo del pontile, volta la prua a sud e mette la leva del cambio in folle:
- Sono le undici e un quarto: io mi butto giù un’oretta ché sono in piedi da stamattina alle quattro. Tieni il timone così fino al molo grande e lì girati a levante. Il posto è tra campanile e campanile, due miglia e mezzo al largo. Lì c’è una “secca”, non più di trenta metri d’acqua. Non puoi sbagliarti: quando cominci a vedere il faro di Antibes, ci vogliono ancora una ventina di minuti per arrivarci. Poi chiamami! Occhi aperti, neh!  
Si sdraia su di un materassino di gommapiuma, si copre con una coperta sdrucita che odora forte di salsedine  e nel giro di cinque minuti russa rumorosamente.
Intanto sono giunto al molo: i due campanili sono già in vista e svettano sulle luci dei bar del lungomare. Sulla spiaggia, la baracca del Porcaro, rostelle e anguria a buon mercato, è come sempre affollata e la mia vista, partendo da quel punto luminoso, si allarga fino ad abbracciare l’oscurità delle colline sovrastanti e delle prime pendici del monte Faudo, si spinge oltre rincorrendo i primi crinali dell’anti-Appennino e infine, grazie ad una serata miracolosamente limpida, si posa sulla cima antracite del Saccarello che buca il cielo nero punteggiato di stelle.
Che bello che sei, visto dal largo, lembo di sabbia sovrastato dai monti: casa!
Cosa ci spinge, ora che la fame e solo più un racconto dei nostri vecchi, a lasciarti per andare alla ricerca di ciò che tu, nei tuoi modi e con i tuoi tempi, ci stai già offrendo?
Se solo ci accorgessimo del tuo dono! Se solo, quando ce ne accorgiamo, fossimo capaci di apprezzarlo! Solo quando la realtà della tua mancanza diventa così dolorosamente acuta da suggerire ai nostri sensi l’odore del pesto appena fatto, il gusto del Vermentino nuovo, la vista delle terrazze sostenute dai muri in pietra a secco e punteggiate dal grigio e verde cangiante degli ulivi o dall’oro delle mimose a febbraio, le voci dei mercati del pesce, la carezza data ad un viso dalla pelle vellutata da cui spiccano due occhi scuri, mediterranei, profondi da perdercisi, ecco, solo allora, quando ormai è tardi ed il danno è stato fatto, solo allora arriviamo a capire.
Ormai le luci dei locali si sono fuse tra di loro creando una lunga striscia luminosa che ad intervalli regolari sembra venir inghiottita dall’accavallarsi ritmico e dolce dell’onda lunga. Poco più a monte, i fari delle auto sull’Aurelia, sciabolano nella notte frugando nell’oscurità. 
Malgrado sia rimasto per qualche tempo distratto dal dipinto che andava via via ingrandendosi davanti ai miei occhi, ho più o meno mantenuto la rotta giusta: correggo appena e poi blocco con una cimetta la ruota del timone ed accendo una sigaretta. L’aria comincia a rinfrescarsi: meglio indossare l’incerata.
Lontano, le luci delle lampare danno il senso dell’attività febbrile che su di esse si sta svolgendo ma io ho ancora tempo prima che venga il mio turno di faticare: mi rilasso e mi guardo attorno. A poppa noto con un certo stupore un motore furibordo di grosse dimensioni: è un Evinrude da settanta cavalli! Ripenso ad oggi pomeriggio, alla battuta scherzosa del mio capo, quella del santo protettore.
Strano! Il gozzo è un nove metri con un motore entrobordo diesel più che sufficiente per il tipo di pesca che facciamo noi, con l’optional di un verricello per salpare le reti e abbastanza spazio per sistemarci due vasche contenenti centro metri di palamite ognuna e quattro grandi nasse per aragoste. Cosa se ne farà di un settanta cavalli fuoribordo?
Un fischio forte e prolungato, mi obbliga ad aguzzare la vista davanti a me. Sento delle voci e vedo la luce di una torcia elettrica sventolare ad indicare la mia sinistra: levante! Rallento al minimo e correggo di qualche grado ad est: hanno già steso il tremaglio e mi stanno avvertendo. Poco dopo, infatti, scorgo il galleggiante, un pallone ovale arancione fosforescente, che evito accuratamente costeggiando largo.
Che strano: mentre manovravo ho avuto la netta sensazione che Livio mi stesse osservando. Mi volto ma lui, pur essendosi girato sull’altro fianco, continua a ronfare!
Il mare è appena increspato e la brezza aiuta a stare svegli e impedisce alla mente di perdersi in quell’oscurità rotta solo dalle luci di posizione del natante e dalla luna che ha disegnato sull’acqua un sentiero luminoso punteggiato da miliardi di lucciole riflesse sul mare.
Sulla terraferma, gli abitati più grandi, San Remo, Ventimiglia e poi, più ad ovest,  Montecarlo e  Nizza, sono ormai solo degli agglomerati luminosi che si staccano dall’oscurità.
Lontano a ponente, finalmente scorgo lo sciabolare del faro di Antibes: ci siamo quasi. Accendo un’altra sigaretta e con l’aiuto della pila portatile controllo l’ora: mezzanotte e venti.
L’aspettativa per la prossima attività e il briciolo di eccitazione che ne deriva mi fanno compagnia per l’ultimo tratto. Alle dodici e quaranta in punto, metto il motore al minimo e quando sono ormai quasi fermo, tiro la leva del cambio in folle, prendo il binocolo e controllo la posizione scrutando la riva: attraverso le lenti mi appaiono le cime dei campanili e ad occhio e croce sono proprio a metà tra di esse.
- Livio, ci siamo! Liviooo...-
- Oh, cosa c’è, dove siamo?
- Dai svegliati: ho visto le luci del faro venti minuti fa e sono tra campanile e campanile: siamo arrivati.
- Ah bene – grugnisce e buttata la coperta incrostata di sale da una parte si alza sulle ginocchia, apre lo sportello  del pozzetto di prua ed inizia ad armeggiare con un fornello da campeggio ed una moka da sei tazzine.
Ben presto l’aroma del caffè riempie le mie narici ed accetto con intima soddisfazione la tazza colma della bevanda calda e ben zuccherata che lui mi porge.
Poi c’è il rito della sigaretta che fumiamo rigorosamente in silenzio usi, come siamo, a quell’abitudine tipicamente marinara, ma non solo, per cui risulta inutile far delle parole quando esse non sono necessarie.
Adesso bisogna brumezzare: indossiamo guanti di gomma e pescando a piene mani dai grossi contenitori di plastica, iniziamo a lanciare grosse porzioni di pastone appositamente preparato con gli avanzi del pranzo di un qualche ristorante della zona, per attrarre la fauna ittica dei dintorni.
In venti minuti, mentre la barca si muove lentamente, abbiamo svuotato i due grossi secchi: adesso bisogna dare ai pesci il tempo di “annusare” il lauto pasto e di radunarsi nei pressi dello scafo.
C’è tempo per rilassarci altri dieci minuti e fumarne un’altra prima di iniziare il lavoro vero e proprio: mettere a bagno il palamite.
Ora Livio inizierà a svolgere il cavetto da cui pendono decine e decine di lenze alla cui estremità sono fissati i grossi ami, ognuno con un’acciuga per esca, e lo immergerà in acqua mentre io, facendo il percorso a ritroso, manovrerò il timone per far procedere la barca a zig-zag, il motore al minimo, disegnando segmenti di circa dieci metri l’uno. Noto però con un certo stupore che dopo aver anche lui indossato l’incerata, invece di approssimarsi al contenitore del palamite, servendosi del binocolo scruta l’orizzonte a 360 gradi e infine si dirige verso il fondo della barca, apre lo sportello che chiude il pozzetto di poppa e ne estrae una scatola metallica di forma rettangolare.
La apre e tira fuori un involucro di carta stagnola e cellophane delle dimensioni di un pacchetto di sigarette, che inizia ad avvolgere con nastro isolante da elettricista. Dall’involucro escono due cavetti elettrici arrotolati.
- Cos’è?
- Niente domande: fammi lavorare! Adesso butto la “saponetta” e mentre svolgo i fili tu metti giù subito la boa bianca e poi manovra piano per allontanarti. Non più di cento metri, poi fermati e spegni anche il motore: hai capito bene?
- Si ho capito ma…cos’è la saponetta?
Mi guarda, sorride sardonico e naturalmente non mi risponde. Sento il mio cuore che comincia ad accellerare il suo battito mentre riaffiorano alla mia mente certi racconti di pesche miracolose dove però l’unico miracolo era tutt’altro che un fenomeno metafisico: piccoli quantitativi di gelatina provenienti dal deposito degli esplosivi utilizzati per spianare il tracciato dell’autostrada in costruzione, in cambio di qualche chilo di pescato molto gradito dagli artificieri.
Ho sempre dato a certe affermazioni la valenza di spacconate buttate lì tanto per attirare l’attenzione, magari ispirate da qualche gotto di Nostralino di troppo e da un’abbondante porzione di cinghiale in salmì. Ma qui lui fa sul serio e siamo sul suo guzzo, a due miglia e mezzo dalla riva: cosa faccio, mi butto e torno a nuoto?
- Livio non fare belinate! Perché mi hai portato fuori? Perché non me l’hai detto subito?
- Se avessi voluto, l’avresti capito da solo! E io pensavo che avessi capito, quando ho detto sant’Evinrude settanta cavalli! Ma tu pensavi alla svedese. Ora fai il moralista. Dai non rompere le balle: mezz’ora ed è tutto finito! Tiriamo sù stá quintalata di pesce e ce ne andiamo a dormire. Alle tre siamo a letto!
- Ma che moralista e moralista, Livio: qui se passa una vedetta della Finanza ci sbattono dentro.
Cattura con il suo il mio sguardo e lo accompagna, sorridendo con aria di sfida, a poppa, in direzione del potente motore fuoribordo e sibila:
- Non ti preoccupare!
Questione di secondi; poi, senza darmi neanche il tempo di replicare appoggia delicatamente in acqua l’involucro impermeabilizzato e facendo ben attenzione a non perdere la presa sui cavetti elettrici, lo lascia scivolare verso il fondo.
Non so cosa fare e allora non faccio niente! Resto lì immobile, esterefatto, con la bocca e la gola secche: si direbbe proprio paura!
Livio mi aggredisce, rude:
- Muovi stá barca! A ballare ci vado domani sera e la doccia me la voglio fare a casa, non qui.
Le mani mi tremano leggermente mentre prendo la cima alle cui estremità sono fissate un’ancoretta da dieci chili ed il pallone ovale bianco.
Posiziono la boa e rimetto in moto il diesel: sposto la leva del cambio sulla prima tacca della posizione “Avanti” e manovro il timone come mi è stato detto.
La barca si allontana lentamente dalla boa mentre Livio srotola con estrema precisione ma sveltamente i due fili elettrici.
- Basta così, fermati! Spegni il motore, fumatene una e stai zitto!
Le estremità dei fili sono ora visibili: il capobarca li fissa allo scalmo assicurandole con un paio di gasse d’amante. Poi si muove velocemente verso il pozzetto di poppa, apre lo sportello e ne estrae una batteria di automobile.
Fissa alle estremità ramate dei fili, due anelli metallici che si indovinano della stessa circonferenza dei due poli metallici della batteria. Slega i due cavetti dallo scalmo e li tira con forza verso di se recuperandone cosí un paio di metri: il tempo che la corrente impiegherà a risucchiarli verso il fondo è quello che Livio ha a disposizione per infilare i due anelli sui poli negativo e positivo della fonte di energia.
E’ veloce e preciso: qualche secondo per avvicinare i cavetti alla Magnetti Marelli, un paio di scintille, ed è cosa fatta.
Non succede nulla! Livio non si scompone, mentre io, pur prevedendo la valanga di bestemmie che sarei costretto a sorbirmi se l’aggeggio non funzionasse, comincio intimamente a sperare in un fiasco.
Ma è un’illusione breve! Tempo tre o quattro secondi e l’acqua intorno alla boa comincia a ribollire e poi vedo esplodere in aria, proprio dove la saponetta di esplosivo è stata calata,  una  colonna di schiuma alta almeno cinque metri: ha funzionato!
- Dai riporta la barca là – mi urla Livio mentre sposta freneticamente e con forza le vasche dei palamiti e le nasse, tira sù dal fondo della barca due “cucchiai” di rete a maglia media e me ne passa uno.
Rimetto in moto e in un attimo sono di nuovo nei pressi della boa. I pesci intanto cominciano a venire a galla ed in me la paura fa salire la frenesia di finire celermente il lavoro ed andare via al più presto. Comincio a manovrare con il retino tirando a bordo tutto quello che galleggia: naselli e orate soprattutto, ma anche aguglie, triglie, qualche branzino, due  verdoni da un chilo ciascuno e addirittura una piccola cernia. Sull’altro lato anche Livio lavora con foga e continua a salpare pesci di ogni foggia e dimensione facendoli volare direttamente nella vasca posta al centro dell’imbarcazione. Ogni tanto si interrompe per dare un colpo di remi così da far muovere il guzzo.
La vasca è ormai stracolma ed il pesce comincia a scivolare sul fondo della barca ma continuiamo a “pescare” fino a che vediamo sagome argentate galleggiare. Il silenzio è rotto solo dal nostro affannoso respirare e dal lieve sciabordare dell’acqua sulle fiancate. Rallentiamo via via il nostro ritmo e la preoccupazione, che era stata attenuata dalla frenetica attività, riprende a stringere in un morso le mie membra, ora che anche la fatica comincia a farsi sentire.
Il fondo della barca è tutto un guizzare e bisogna stare attenti a non mettere i piedi nel punto sbagliato se non si vuole rischiare di finire a bagno. 
- Basta così! E’ andata bene. Dai andiamo a salpare la boa e filiamo.
Metto ancora una volta in moto, faccio girare la prua verso l’indicatore galleggiante e dò un po’ di gas: l’ansia ora sale e anche in Livio percepisco, dai suoi gesti nervosi, la fretta di cambiare aria.
Sono ormai a non più di trenta metri dalla boa quando tutti e due sentiamo distintamente il rombo di un motore avvicinarsi velocemente e subito dopo il fischio breve ma inconfondibile di una sirena e una voce nasale che esce da un megafono:
- Guardia di Finanza! Accostiamo!
Livio cambia espressione:
- Cristu! Spegni, presto! Buttati giù sul fondo e reggiti forte che ora si balla davvero.
Agguanta la batteria e con un balzo è a poppa, collega i cavi che fuoriescono dall’Evinrude ai due poli metallici ed afferrata la maniglia del cavetto di accensione, tira con tutta la sua forza: niente!
- Stiamo accostando, Guardia di Finanza - ripete la voce nasale.
Livio ora è frenetico: strattona con veemenza il cavo accompagnando i suoi sforzi con colorite quanto irripetibili bestemmie.
Quando il natante delle Fiamme Gialle è ormai abbastanza vicino da poter scorgere sul ponte di poppa le sagome dei militari, dopo l’ennesimo strappo finalmente il fuoribordo si mette in moto con un rombo assordante.
- Tieniti forte – ripete ancora con decisione. Poi da improvvisamente gas e la barca, via via che lui accellera, assume una posizione inclinata con la prua in alto e lo scafo che tocca la superficie del mare con la sola parte posteriore dove attraverso l’elica, il potente motore scarica in acqua tutti i suoi settanta cavalli.
Sono sdraiato nella sentina, su di un letto di pesci ancora guizzanti, i piedi puntellati a due stecche dell’ossatura della barca e le mani serrate ai ganci d’alloggiamento interno dei remi. La vasca dei palamiti si è rovesciata su un fianco spargendo ovunque il pescato e l’attrezzatura per la pesca. Ad ogni sobbalzo, le punture degli ami e delle spine dorsali dei pesci che guizzano per sfuggire alla morte, non aiutano certo ad attenuare in me la paura per le conseguenze del gesto da noi appena compiuto, se la nostra folle corsa sul mare non dovesse sottrarci ai nostri inseguitori.
Di fronte ai miei occhi l’immagine luciferina di Livio, gli occhi sbarrati nell’oscurità ad evitare eventuali ostacoli ed alla ricerca di una via di fuga, l’espressione indecifrabile del viso rischiarato dalla luna e la tensione che si indovina nella rigidità delle braccia che stringono, una la barra del timone, l’altra un qualche appiglio che lo aiuti a non essere sbalzato fuori dall’imbarcazione.
Più indietro, quando il guzzo spinto dal pulsante motore salta sulle onde, si intravede la sagoma della motovedetta che ci insegue.
Livio cambia spesso traiettoria ed ogni cambio di direzione è accompagnato dai sinistri cigolii del fasciame: lo scafo non gradisce certe sollecitazioni!
Ma la barca, costruita nei cantieri di Sestri Levante, è forte ed è con un certo sollievo che tra un salto e l’altro, constato che stiamo aumentando il vantaggio sui nostri inseguitori.
In quella situazione, il tempo sembra non scorrere: dieci minuti, quindici, forse più prima di provare la sensazione netta e liberatoria della barca che riprende lentamente ma inequivocabilmente la posizione orizzontale.
Il rombo del motore scende d’intensità abbastanza da permettermi di udire la voce rauca del mio compagno di navigazione:
- Ci hanno persi! Per stavolta è andata bene!
- Per stavolta? Non ci saranno altre volte con me a bordo, Livio. Non rischio cosí per guadagnarmi da vivere!
- Va bene, d’accordo, me l’hai già detto! Ormai è fatta e considerando tutto, ci è andata di lusso: non ci hanno presi e la barca è a posto, non abbiamo perso i pesci e quindi abbiamo guadagnato. L’unico danno subito è la perdita della boa, ma se penso a come poteva finire…! E poi dai, domani vai in spiaggia con la moretta - sorride ironico.
Segue un silenzio esasperante che dura qualche minuto, poi lui riprende, nuovamente serio:
- Comunque mi raccomando: acqua in bocca, neh, discrezione - conclude voltandosi verso nord, verso la foce del fiume, verso l’approdo.
Inutile insistere! Livio rallenta del tutto ed infine spegne il fuoribordo. Rimette in moto il diesel ed ho ancora il tempo per ricompormi un po’ prima che l’imbarcazione, a velocità minima, punti l’ingresso della darsena e il pontile deserto.
Dopo aver ormeggiato e raccolto le mie cose, tiro la cima ed avvicino la barca alla struttura di legno e con un balzo sono sù di essa.
Stanotte non troviamo parole per salutarci: Livio estrae da una tasca il suo portafogli e mi porge le centomila lire pattuite. Poi si china verso un secchio lì dappresso, tira sù un paio di orate belle, mezzo chilo l’una, le pulisce, le squama, le avvolge in un paio di fogli ingialliti di un vecchio numero del Secolo XIX  e me le porge. Infine va verso la Millecento, apre il portellone posteriore e da una cassetta di legno prende due bottiglie di vino bianco e mi da anche quelle. La scena avviene in totale silenzio ed infine Livio si accomiata da me con uno sguardo di traverso e una semplice pacca sulla spalla.
Io lo guardo per l’ultima volta e poi, crollando il capo in un’ultimo cenno di incredulità, mi volto e mi avvio lentamente verso casa.


4

Il sole è già alto e comincia a fare caldo: saranno già le dieci! Passo prima alla posta a versare le centomila lire, poi faccio un salto al bar a cercare qualcuno che mi presti una Vespa. Gigino è disponibile alla bisogna ma prima dobbiamo andare a prendere la sua Cinquecento, sennò è a piedi, e poi potrò prendere lo scooter.
Alle dieci e mezza, alzo sul cavalletto il motociclo nello spazio tra due auto posteggiate e mi dirigo verso il portone dell’edificio dove so che abitano le svedesi. 
Poco lontano, infatti, un gruppo di giovani donne dai tratti somatici e dal colore dei capelli tipicamente scandinavi, conversano affabilmente arricchendo la loro eloquenza nordica con scoppi di risa e brevi frasi, anche salaci, riportate in uno stentato italiano.
Mi avvicino, mi scuso per l’interruzione e chiedo di Ingrid. Si consultano un attimo poi una di loro chiede maggiori dettagli: ci sono cinque Ingrid nella comitiva! Due fanno parte del gruppetto lí presente e me le indica e delle tre rimanenti, due sono bionde, più alte di me mentre l’altra è castana, ha la mia statura e gli occhi verdi: qual’è quella che cerco io?  
Lo capiscono da sole: quando hanno descritto lei, devo aver cambiato espressione. Ridacchiano ora e fanno cenni verso i piani superiori scandendo a più riprese quello che dev’essere il cognome della donna che cerco. Ad un tratto una di loro se ne esce in una frase che provoca in tutte le altre una risata: il tono è ammiccante, quasi sferzante, la reazione unanime è ilare. Un’ilarità in cui però colgo un pizzico di sarcasmo, peraltro sfumato da una non giustificata tenerezza che le ragazze, con leggeri sorrisi e con un paio di buffetti, sfoderano nei miei confronti.
L’informazione che ricevo - la camera di Ingrid è la numero 18 - cancella le mie perplessità e dopo aver ringraziato, mi avvio con il passo leggero, il battito cardiaco già leggermente accellerato e la salivazione in netto calo, verso il portone della palazzina “D”. Ho con me i pesci, il vino e un mazzetto Primavera che la Rinuccia mi ha passato sottobanco al magazzino presso il quale, in inverno, anch’io lavoro.
Sono sei appartementi per ogni piano, quindi devo salire al terzo, l’ultimo. Dopo l’ultima rampa di scale, mi fermo un attimo a riprendere fiato ed a leggere un cartellino in bachelite dorata che indica a sinistra i numeri dispari, a destra quelli pari. Le voci degli occupanti delle camere giungono chiare alle mie orecchie mentre mi avvio nel corridoio sempre più emozionato ma al contempo impaziente di bussare a quella porta.
E finalmente eccomici di fronte: dall’interno nessun rumore.
Busso due colpi discreti e attendo col cuore in gola: non ottengo risposta. Che fare? Una ridda di pensieri si scatenano inarrestabili nella mia mente: devo bussare nuovamente? E se dorme ancora? Non vorrei disturbarla, contrariarla in qualche modo, privarla di un inizio di giornata a lei congeniale.
Devo però fare i conti con la mia impazienza e decido che in fondo un’altro colpetto alla porta, magari leggermente più deciso di quello precedente, non può essere preso alla stregua di una scortesia.
Alzo quindi il mio braccio per ripetere il gesto di picchiare le mie nocche sul legno, quando un lieve lamento soffocato e un’esplicito “piantala, stupida: credevi fossi salito in camera a recitarti i versi di Shakespeare” mi gela il cuore in una morsa di incredulità e di amarezza che in un attimo si cambiano in rabbia.
Istintivamente tendo il braccio all’indietro per dare un pugno alla porta e poi, dopo essermi sfogato, posare a terra il vino, i pesci ed i fiori e ritornare in fretta sui miei passi. Ma non faccio in tempo: la porta si apre e Mario, proprio lui, il veterano dei cucadores, indossando il suo berrettino da nostromo, fa cenno di voler uscire dalla camera.
Dietro di lui, in mezzo alla stanza immersa ancora nella penombra, un grande letto disfatto al cui centro vedo lei, Ingrid, in lacrime, i capelli scarmigliati e sul viso i segni di una notte movimentata.
La scruto con sguardo interrogativo, alla ricerca di un perché, ma lei china gli occhi a terra e se si eccettuano l’espressione amara comparsa sul suo viso vedendomi e un lungo, penoso sospiro che le sfugge con un soffio di voce, non da altri cenni di reazione.
Mario intanto si è creato un varco tra lo stipite e me e si sta allontanando nel corridoio. Quando è ormai giunto agli scalini della prima rampa, si volta nella mia direzione e dice con tono consolatorio:
- Non te la prendere più di tanto! Anzi, per te che sei uno dalla cotta facile, forse è meglio così! Siamo andati al Menestrello, abbiamo ballato due lenti, l’ho fatta bere un po’ e poi sono salito ad accompagnarla ché a lei girava un po’ la testa. Prima di lasciare il locale ha chiesto di te un paio di volte, ma tu eri andato fuori in barca - conclude con tono auto-assolutorio.
 La mia totale mancanza di reazione lo agevola e lo rende spavaldo, perché infine, iniziando a scendere le scale, alza di un’ottava il tono della voce e sarcastico mi chiede:
- Fatta buona pesca?      


Fine

 

 

Danilo Sidari - 2006

Wednesday, July 6, 2011

Il falò di S. Benedetto


1
Bedè u brütu scrutava con aria serena il nitido tramonto. Seduto sul gradino lastricato d’ardesia cotta dal sole di generazioni, aspirava con evidente soddisfazione il fumo della sua sigaretta di trinciato forte, precedentemente arrotolata tra le grosse e callose dita.
Le fresche raffiche di grecale che soffiavano da nord-est, increspavano le onde e spazzolavano le spiagge deserte giù alla marina prima d’arrampicarsi per i valloni delle Perriane e di S. Lucia frustando le cime degli ulivi. Fascia (1) dopo fascia, seguivano il profilo della collina,  partendo dalle rovine del castello di Taggia, su fino alla Zotta, oltre la fontana dell’Albareo e infine, raggiunta la sommità della costa, declinavano verso Beuzi e il fondovalle Armea.
Il vento portava con sé fragranze di mare, frammiste all’odore della terra appena magagliata (2). Qualche fascia più a valle, i tordi volavano da un ramo all’altro, alla ricerca di qualche oliva dimenticata e mentre il sole si coricava a ponente, dietro il promontorio di Cap Ferrat, incendiando il cielo di rosso, Bedè, in silenzio, ascoltava dentro di sé la soddisfazione dell’uomo operoso che è a buon punto nel suo lavoro.
Il raccolto delle olive era stato abbondante e la frangitura aveva dato una buona resa; la campagna era tutta magagliata e la terra era pronta alla semina che, in pochi mesi, avrebbe dato i suoi frutti. I maxéi, gli antichi muri di contenimento in pietra a secco, che erano serviti a terrazzare le alture prospicienti Taggia e un po’ tutto l’entroterra ligure, erano solidi e ritti; la vigna cominciava a vegetare e le piante d’olivo erano quasi tutte potate e concimate. Aveva piantato mezzo quintale di patate da semina, in ordinati solchi, nelle due fasce dietro la vasca d'irrigazione e...
Il nitrito di Frida che giù nella stalla reclamava biada, interruppe i suoi pensieri: si alzò lentamente e stirandosi la schiena stanca, si accinse a preparare la razione serale di cibo per tutti gli animali.  Era a metà della piccola e tortuosa scala, tagliata nel maxé, che scendeva alla stalla, quando vide salire dalla mulattiera Gianni u Castelin. Aveva il passo spedito e un sorriso ironico illuminava il viso contornato dai lunghi capelli lisci e folti.
 - Ti séi muntàu a-agiutame, gàina? (3) chiese sfottendo Bedè e ridendo gli porse un bicchiere di nostralino.
- A l’amu truvàu u camiun - esclamò Gianni - nui a sému prunti a partì pè andà in Piemunte a caregà e legne p’ù faö: tu ch’ò ti fai, ti vegni? (4)
Dopo alcune vane ricerche, finalmente il camion per trasportare il legname era stato trovato e sarebbero partiti subito per Garessio dove, l’indomani all’alba, avrebbero caricato i tronchi già tagliati e accatastati, lasciati lì sul ciglio della strada dalle squadre della Forestale, dopo l’ultima pulizia del bosco. I tronchi e le fascine sarebbero serviti, ritornati a Taggia, per preparare i falò da bruciare in onore di S. Benedetto, patrono del paese.

                                                   
*  *  *  *  *  *
Nel febbraio del 1626 le truppe franco-savoiarde d’invasione, lasciano Taggia senza arrecare alcun danno alle persone ed alle cose dopo “soli” tre mesi di invasione.
Il Podestà, gli anziani ed il popolo taggiasco onorano il voto fatto qualche mese prima a S. Benedetto Revelli (826-900), patrono del borgo, perché questi intercedesse presso l’Altissimo affinché loro e le loro cose fossero salve. Oltre alla solenne processione votiva, nelle ore notturne vengono accesi grandi falò in ogni rione del borgo medievale (B. Boeri “Taggia e la sua podesteria” vol. 1)
                                       
*  *  *  *  *   
2 Benedetto, detto Bedè, pregustò l’atmosfera che andava creandosi: avrebbero incontrato gli amici di Garessio e lui avrebbe rivisto Giovanna dopo parecchio tempo. Il mattino successivo, dopo aver caricato il legname, avrebbero fatto ritorno a Taggia per sistemare i tronchi in un’enorme pira che, col far della notte, sarebbe stata data alle fiamme.
L’allegria della festa avrebbe pervaso tutto il paese e tutti ne sarebbero stati contagiati.
Si affrettò, con l’aiuto di Castelin, a cibare le galline, i conigli, le capre e la cavalla e dopo aver riparato nella stalla tutte le bestie, i due amici si avviarono giù per il viottolo che in mezz’ora di cammino, li avrebbe portati in paese.
Quando vi giunsero, fecero una breve sosta da Vivado per gustare i marunzin al cioccolato che la Pina aveva appena sfornato e subito proseguirono verso il bar di Tunin dove il resto della compagnia li stava aspettando per muoversi.
Le botteghe del Pantan esponevano la loro merce sopra banchetti sistemati al riparo dei portici e la via era abbastanza popolata a quell’ora. Qua e là, si formavano capannelli di persone  e dai bar echeggiavano le risate degli avventori e la musica. Lo scoppio di un petardo interrompeva, ogni tanto, il quieto trambusto paesano da cui traspariva però l’eccitazione per l’imminente evento festivo. Nell’osteria l’atmosfera era già abbastanza calda: Alessio suonava alla chitarra il solito pezzo di Guccini e Tunin, l’oste, cantava! Nello, Gary, Pasquale Patreternu, Minetto, Danilo lo squalo, Gigino, Banano e Silvano Levaive, erano impegnati in un diverbio ad altissimi toni, sul come cucinare la murena: qualcuno diceva in umido, qualcun’altro al forno.
Milena e Nadia, le figlie di Tunin, mescevano il nostralino e contemporaneamente, mentre badavano ai bambini, servivano la cena agli abituali clienti: Pietro l’impresario, Gabriele, Maria a Ghega, la vecchia Giuanina Bracco con il figlio Dino e l’ex ballerina d’avanspettacolo, ora in pensione, signorina Patti. Ad un tavolo appartato sedevano Guerino il camionista e Nini Panzironi mentre in cucina, la Rina aggiungeva una foglia d’alloro allo stufato di stoccafisso con patate e olive cucinato a-a baucögna (5).
Bedè, che era un ottimo cuoco, mise tutti d’accordo asserendo che la murena andava cotta allo spiedo e dopo aver chiamato il suo giro di rosso, si rivolse nuovamente agli altri dicendo:
- Sciù a Gaèsciu i n’aspèita: a l’è meju ca se bugéme! (6).
- Eh, l’amore… - sentenziò Pasquale con sottinteso lasciando la frase in sospeso.
Le risate salirono di tono e i bicchieri tintinnarono mentre Bedè, che era il musone del gruppo, mugugnava (7) qualcosa di incomprensibile.
Tutti vuotarono il loro bicchiere e dopo aver salutato, sei di loro si mossero verso l’uscita. Bedè salì sul Tigrotto di Guerino mentre Alessio faceva accomodare sulla sua scassata utilitaria, Nello, Pasquale e Gianni Castelin.  Giunti ad Arma incrociarono l’Aurelia al bivio Rossat e presero a levante, verso Imperia: alla loro sinistra intravedevano nell’oscurità le serre dei garofani e delle rose destinati al mercato di S. Remo. Alla loro destra, la ferrovia correva parallela alla nazionale che stavano percorrendo verso est.
Sulla scogliera sottostante si infrangevano le onde di cui, alla luce bianca della luna, si intravedevano le creste spumeggianti. L’aria notturna di febbraio era ancora fredda ed il cielo era stellato. L’eccitazione infine prevalse e gli occupanti dell’automobile improvvisarono un coro sguaiato sul motivo di Genova per noi di Conte.
Sul camion invece, la conversazione tra Bedè e Guerino spaziava dai funghi porcini alla caccia al cinghiale, dalla coltivazione dello sprengeri (8), ai pronostici sull’ordine d’arrivo alla Milano-S. Remo che si sarebbe corsa il mese successivo.
Giunti a Oneglia svoltarono a monte sulla Statale 28 del Col di Nava e dopo i primi chilometri di falsopiano, superato Pontedassio, la salita si fece più ripida. Le case si fecero sempre più rare e al loro posto la vegetazione s’infittì. I raggi lunari che penetravano in quella massa oscura che scorreva sotto i loro occhi, offrivano loro lampi e sprazzi surreali di rara suggestione.
Giunti in cima al Colle S. Bartolomeo, una lunga serie di curve in discesa li riportò a fondovalle. Oltrepassato il ponte sul torrente Arroscia, entrarono nell’abitato di Pieve di Teco: gli ultimi passanti si affrettavano verso casa dove il caldo della stufa a legna e degli affetti familiari li attendeva. Nello e Pasquale, ammiccando, iniziarono a criticare Alessio per il suo modo di affrontare le curve e il Castelin, sorridendo alla burla, pensava che presto anche loro si sarebbero seduti al caldo, ad una tavola imbandita, in compagnia degli amici e questo pensiero suscitò in lui una piacevole sensazione di benessere.
Lasciate dietro di sé le luci di Pieve, la statale s’inerpicava ripida tra castagneti ed abetaie e dopo i piccoli abitati di Pornassio e Case Rosse, con un’ultima rampa giungeva a Nava, in cima al colle.
Attraversarono il centro turistico a quell’ora ormai deserto: dai finestrini della vecchia utilitaria, s’intravvedevano le luci delle case e di un paio di bar  dove qualche avventore si era attardato.  
Superarono lo spartiacque ed affrontarono la rapida discesa che li portò a Ponte di Nava; dopo vennero le luci di  Cantarana e dopo alcuni chilometri di curve in leggera discesa, quelle di Ormea, che oltrepassarono velocemente. La luna infine illuminò i primi rettilinei d’asfalto: erano finalmente a valle. Solo qualche altro chilometro ed eccoli infine a Garessio dove Tonò e Pierin, che li aspettavano in piazza, li accolsero calorosamente e li accompagnarono a casa.

3
La cascina distava qualche centinaio di metri dall’abitato ed era caratterizzata da un’enorme cucina dove, nell’angolo opposto alla porta d’entrata, una grande stufa a legna teneva caldo l’ambiente e gli animi.
Attorno al lungo tavolo alcune persone già sedevano. Un rapido, discreto sguardo in giro e con un certo disappunto Bedè vide che Giovanna non era tra i presenti. Gli altri, intanto, si stavano accomodando: i bicchieri furono presto riempiti con ottimo Ormeasco e la conversazione si animò tra i racconti del bosco e la cronaca di qualche scorribanda serale a Torino.
Il pane e il salame casereccio lasciarono presto il posto, sul grande tagliere di legno, ad una fumante polenta che Mario aveva amorevolmente cucinato nel grande paiuolo sopra la stufa. Venne servito anche il cinghiale in una enorme casseruola e tra i complimenti allo chef, il vino e le risate,  il convivio godette dei piaceri della tavola  e della compagnia.
Più tardi Bedè, uscito per fumare e per prendere un pò di fresco, rifletteva:
 - Puscibile che Giuàna a s’a sece tantu pijà a mà, l’ürtimu viègiu ch’a se sèmu visti, da nù fasse vié pe’ tüta a seja? (9)
Si erano visti a Taggia in occasione della fiera di S. Lucia e, dopo una serata passata allegramente in compagnia, rimasti soli, lui le aveva esternato il suo sentimento e le aveva chiesto di venire a vivere con lui alla Zotta. C’era qualcosa di magico nell’atmosfera di quell’attimo e una dolcezza sconosciuta lo aveva pervaso. La stava ad ascoltare stupito ed incapace, lui così disabituato al dialogo e alla confidenza, di dare un valido apporto alla conversazione. Si sentiva così grossolano di fronte alla grazia naturale di lei, dei suoi gesti, delle sue parole. Provò per lei una grande riconoscenza e si commosse, perse un poco l’innata riservatezza, la consueta timidezza e istintivamente avvicinò il proprio viso al suo per baciarla. Lei si era ritratta e dopo un lapidario “corri troppo, amico”, era corsa via a raggiungere gli altri.
La delusione che aveva provato inizialmente, era stata sostituita col passare dei giorni, dalla speranza di rivederla presto e poterle ancora parlare.
Così, quando gli amici giù in paese gli avevano detto che quest’anno avrebbero preso i tronchi per il falò a Garessio, dove lei viveva, aveva riso dentro di sè per l’occasione che gli era stata data di rivederla, di scusarsi, di chiederle un’altra opportunità. E di poterlo fare senza dover esporre troppo il suo sentimento in pubblico, come per casualità.
Ma l’aspettativa era andata delusa: stasera lei non si era vista e, fors’anche accentuata dall’Ormeasco, Bedè sentì una profonda tristezza pervaderlo e infreddolitosi, rientrò.
L’atmosfera all’interno lo rincuorò un poco: tutti ormai, si stavano ritirando nelle camere al piano superiore e, per qualcuno, salire le scale era impresa difficile a causa delle gambe appesantite dalle abbondanti libagioni e dal vino. E naturalmente questo provocava negli altri, scoppi di risa e dileggi.
Ma infine tutti trovarono una sistemazione e pian piano i rumori e le voci si spensero. Bedè, nel suo letto, ascoltando nel silenzio il russare quieto di Nello, pensò:
- A puxéva esse ina bella stòia tra mi e véla... ma forsci mi a sun troppu servàigu - (10) e una lacrima solcò la sua guancia e si perse tra la folta barba.

                                                                 *  *  *

Quando Guerino e Bedè alle sei e mezza del mattino successivo, scesero in cucina, fuori era ancora buio ma Tonò aveva già acceso la stufa e messo sulla piastra una moka da dodici tazzine: dal suo beccuccio usciva già un po’ di vapore e la fragranza del caffè dava all’ambiente, profumandolo, un’intimità familiare.
Qualcuno accese la radio e la voce di Modugno che cantava Nel blu dipinto di blu fu la loro colonna sonora per la giornata che andava ad incominciare. Presto tutti gli altri li raggiunsero e dopo aver sorseggiato con gusto la bevanda calda, uscirono nella fredda mattina, chi stringendosi nel pastrano, chi accendendo la prima sigaretta, per raggiungere il lavoro che li attendeva.
I tronchi erano accatastati nella radura a poca distanza dalla cascina, sul lato a monte della mulattiera che da Garessio sale a Battifollo. Si trattava di pini ed abeti che erano stati abbattuti dagli amici di Garessio per conto della Forestale perchè colpiti da un fungo parassita delle conifere. Sotto la direzione di Guerino, che sapeva il suo mestiere, in un’ora e mezza furono caricati e assicurati all’automezzo con grosse funi e alle nove erano tutti nuovamente a casa.
Entrando l’odore della pancetta che stava friggendo, solleticò le loro narici. Pierin e Bertumè (11) si davano da fare intorno ai fornelli e la colazione che cucinarono, per quanto abbondante, fu voracemente consumata tra risa, ammicamenti e prese in giro.
Si conoscevano da anni ormai e la conversazione era per certi versi scontata ma comunque scherzosa e molto piacevole, ma dopo un’ultimo caffè, avendo dato uno sguardo al suo orologio da tasca, Bedè si schiarì la voce e disse:
- Beli zùeni, grazie d’a vustra uspitalità, ma aù u l’è meju andà perchè a duvèmu fà stù faö. A me raccumàndu de caà staseja: nun staive a preoccupà che a-a Zotta postu pè durmì ghé n’è tantu. A se viemu dopu! Bona nèh! (12)

4
La Valle Impero era illuminata da un fulgido mattino di sole che faceva presagire una primavera precoce e bel tempo per quella sera. Trattandosi di fuochi, era importante che non piovesse, naturalmente, ma il cielo terso sembrava rassicurare i nostri che stavano già argomentando sul come costruire il falò e che presi dalla discussione, ridiscesero a valle e dopo il tratto di Aurelia si ritrovarono, in un tempo che sembrò loro brevissimo, nuovamente a Taggia, davanti al bar di Tunin.
Fu necessario bloccare per qualche minuto la strada per consentire a Guerino di scaricare i tronchi ed agli altri per sgombrare la carreggiata, ma fu un tempo sufficiente a far sì che parecchia gente del rione si radunasse intorno a quella scena.
Chi motteggiava, chi dava consigli, chi offriva un bicchiere: tutti comunque erano direttamente coinvolti e partecipi di quello che stava succedendo.
Guerino risalì al posto di guida e si avviò verso l’argine dell’Argentina dove avrebbe posteggiato. I cinque amici, aiutati da qualcuno dei curiosi lì attorno, accatastarono la legna sul lato della via e proprio mentre Pasquale e Alessio finivano di spazzar via qualche detrito dall’asfalto, la Rina, affacciatasi alla soglia della cucina, chiamò per il pranzo.
Stettero a tavola per breve tempo e dopo il rituale caffè si alzarono ed uscirono in strada per la proverbiale sigaretta e per preparare gli attrezzi.
Avevano deciso che avrebbero sistemato i ceppi alla carbunéia (13) l’antico sistema che richiedeva un particolare posizionamento dei tronchi così da ottenere un’abbondante areazione, affinché la fiamma fosse sempre ben ossigenata e bruciasse bene al centro dei falò.
Questo per evitare un eventuale precoce crollo dello stesso che avrebbe significato il fallimento del loro lavoro e l’ilarità e le burle della gente degli altri rioni.
Chiamarono a consigliarli il vecchio Murin, che con il carbone ci aveva campato per una vita, e sotto la sua direzione, dopo aver segato tutti i fusti ad una lunghezza di circa due metri e mezzo, iniziarono a disporli nella caratteristica forma a cono, tipica di quel tipo di costruzione.
Tunin intanto, con l’aiuto di Diego, suo figlio, aveva installato proprio sopra l’entrata del bar una coppia di altoparlanti che diffondevano musica: l’eccitazione saliva intorno al falò che prendeva forma.
I ragazzi lavoravano alacremente non risparmiandosi la fatica: il loro falò doveva essere il più bello del paese. Gli abitanti dei dintorni che erano coinvolti nell’impresa per lo stesso motivo, oltre a creare intorno al gruppo di lavoro una festosa cornice, davano una mano come potevano.
Gli uomini aiutavano ad accatastare i ceppi. Le donne scendevano da casa portando vassoi colmi di  sardènàia (14) e di frisciöi (15). Tunin, nel frattempo, si premurava di tener sempre piena la caraffa del vino e tutto attorno i bambini correvano schiamazzando e facendo esplodere mortaretti. Un generale clima di allegria si era diffuso, ma non sembrava coinvolgere Bedè che anzi, con l’avvicinarsi del completamento del lavoro, si incupiva sempre di più.
- Che triste sarebbe stato – pensava - ritornare alla Zotta da solo, dopo la festa.
Certo qualcuno sarebbe salito a bere un bicchiere ed a strimpellare per un po’ una chitarra. Ma la persona che lui avrebbe più volentieri ospitato, non si sarebbe vista. Fu un’attimo: l’idea di tornarsene a casa senza partecipare all’accensione del  falò e alla festa vera e propria lo colse impreparato, forse indebolito e senza riflettere, quasi di getto, lo disse agli altri.
Un coro di proteste si levò e tutti, a modo loro, cercarono di fargli cambiare idea ma lui, testardo, perso nella sua malinconia, non volle sentir ragioni.
Intanto la disposizione dei tronchi volgeva al termine ed essendo ormai quasi ora di cena, parecchie persone si ritirarono per il frugale pasto dopo il quale sarebbero tutti ridiscesi in strada. Anche i cinque compagnoni, dopo aver cercato un’ultima volta di convincere Bedè a rimanere, raccolsero i loro attrezzi e si avviarono a casa per rinfrescarsi un po’.
Bedè, rimasto solo, rimise nella sacca l’ascia ed il saracco e si avviò, le spalle curve e gli occhi bassi a terra, verso la mulattiera che lo avrebbe riportato a casa, quando improvvisamente, dietro di lui, una voce femminile, quella voce, lo fece sobbalzare dalla sorpresa.
Sentiva il cuore scoppiargli in petto: si voltò e lì a due passi c’era Giovanna. Gli si avvicinò e con quel tono particolare a causa del quale lui, ne era sicuro, aveva perso la testa, gli disse quasi sussurrando:
- Sai Bedè, stasera dopo la festa, mi piacerebbe salire alla Zotta per constatare personalmente se è un bel posto come dicono tutti.
- Ma col buio non vedresti niente - esclamò lui che per l’emozione aveva scordato per un attimo il dialetto, riacquistando miracolosamente l’uso dell’Italiano.
- Potrei, forse, fermarmi per qualche giorno – ribattè lei sorridendo con un’espressione timida e proprio per questo terribilmente invitante.
Bedè, travolto dalla commozione e dall’aspettativa, le strinse teneramente le mani e visibilmente raggiante sbottò affermando a viva voce:
 - Stu chi, u seà in San Benedetu magnificu! (16)


                                                           
Fine


 Danilo Sidari - 1996
Consulenza dialettale di Giuseppina Panizzi

LEGENDA
1) Appezzamento di terreno ottenuto innalzando un muro di contenimento e formando così un terrazzamento.
2) Da magaglio: zappa a tre punte usata per lavorare in profondità il terreno.
3)  - Sei salito ad aiutarmi, fannullone.
4)  - Abbiamo trovato il camion: noi siamo pronti a partire per andare in Piemonte a caricare la legna per il falò; tu cosa fai, vieni? -
5) Come usano cucinarlo a Badalucco, comune della Valle Argentina in provincia di Imperia.
6)  - Su a Garessio ci aspettano: è meglio muoversi.
7) Da mugugno: lamentela.
8) Asparagus Sprengeri: pianta ornamentale coltivata a Taggia, il paese dove si svolge  il narrato.
9)  -  Possibile che Giovanna se la sia presa così tanto a male, l’ultima volta che ci siamo visti, da non farsi vedere per tutta la serata?
10) - Avrebbe potuto essere una bella storia tra me e lei, ma forse io sono troppo rude, grossolano.
11) Bartolomeo.
12) - Bei giovani, grazie di tutto e della vostra ospitalità, ma adesso dobbiamo andare perché dobbiamo fare questo falò. Mi raccomando di scendere stasera: non preoccupatevi che alla Zotta posto per dormire ce n’è tanto. Ci vediamo dopo! Arrivederci.
13) Carboniera.
14) Focaccia guarnita con sugo di pomodoro, acciughe, aglio, origano e olive nere, tipica del ponente ligure.
15) Frittelle di baccalà, o bietole oppure fiori di zucca.
16) - Questo sarà un S. Benedetto magnifico!