Saturday, October 30, 2010

UN MERCOLEDI PIOVOSO

Conservo in una boccia di cristallo
sigillata dal mio ardore
e dai tuoi rimorsi,
la scia turbinosa dei tuoi colori
la danza sensuale delle tue ali
che i miei occhi colsero appena.
E già fuggivi via.
Farfalla.
Fugace visione di eterno
riflessa sull’asfalto bagnato.                         

Danilo Sidari - 2004

KINSELLAH

Come carsico fiume interrato
e irruento,
scorre in te, Femmina
il flusso dei tuoi desideri.

E a chetarlo, impetuoso,
confusa eppure irretita
ti struggi, Donna,
erigendo con rara perizia
baluardi d’antica morale.

Ma incalzanti vortici chimici,
e impietosi,
travolgon certezze acquisite
riaprono stanze ancestrali
da tempo lasciate in penombra.

Osservarti è un piacere perverso
Mentre mesci non senza malizia
Dolce vino di spezie e di sensi
Che altre labbra stasera berranno

E i cantori del Peloponneso
Se ne fottono del quotidiano
E sorridono ormai irriverenti
Ai miei spasmi inattesi, crudeli,
quando il dubbio si muta in certezza.                                        

Danilo Sidari - 2006

Sunday, October 24, 2010

PIAZZA EROI TABIESI


o della multietnicità di una piazza ponentina.

In principio era a Ciazza! Lasciatosi alle spalle circa ducento anni, tra il quindicesimo ed il diciassettesimo secolo, caratterizzati da guerre, lutti, pestilenze e carestie, il borgo aveva ripreso a crescere ed espandersi verso la piana solcata dal torrente Argentina. A valle di San Dalmazzo, la principale via cittadina, quella delle botteghe e delle taverne, le famiglie nobili avevano fatto costruire i loro palazzi. E tra essi, che desse aria e luce alle case, il nuovo salotto cittadino, il Pantan, la via porticata che conduceva alla chiesa di S. Bastiano.
Altri due secoli, e siamo al diciannovesimo, di ulteriore espansione aveva finito per inglobare nel tessuto urbano anche il lungofiume che dal mare risaliva la valle, proseguiva in direzione delle prime alture e attraversati i monti dell”Appennino sfociava nei territori piemontese a levante e francese a ponente.
A Ciazza interrompeva la linearità dello stradone polveroso che saliva dalla marina e attraversava il paese e ben presto divenne la nuova agorà taggiasca, il luogo di ritrovo popolare.
Alla fine dell’Ottocento, al centro del piazzale era stato elevato il monumento ai fratelli Ruffini, eroi risorgimentali: un bell’obelisco marmoreo la cui base fu arricchita da quattro medaglioni bronzei del Biscarra. Intorno un giadinetto, anch’esso quadrato, racchiuso in una ringhiera in ferro battuto: in tutto non più di dodici metri quadri.
A ciazza era diventata Piazza Eroi e continuava ad essere frequentata quasi esclusivamente dagli indigeni liguri, se si eccettuavano gli occasionali grossisti di  mandarini prima di Natale e di ciliegie a maggio.
Doveva passare ancora mezzo secolo prima che sotto i grossi platani che facevano da corollario  al luogo di ritrovo pubblico, si udisse l’eco di un dialetto che non fosse quello locale.
La seconda guerra mondiale era appena finita quando le prime famiglie di calabresi iniziarono ad arrivare e ad abitare quelle case della parte alta del paese, da San Dalmazzo fino a sotto la torre, scomode e perciò lasciate vuote dai taggiaschi più abbienti.
Oltre alla loro miseria, i calabri avevano portato anche il loro vernacolo naturalmente e ben presto questo risuonò in piazza ad affermare la loro presenza.   
In piazza stavano nell’angolo a sud-ovest, quello dov’erano la farmacia, i bagni publici e la fermata del filobus.  
La loro presenza si fece via via più numerosa e, come conseguenza, a tratti anche più spavalda, pungolata dalla palese refrattarietà dei locali di fronte all’ennesima, anche se pacifica, invasione del loro territorio.
Non pochi furono i dissapori che si verificarono tra i vecchi ed i nuovi abitanti del capoluogo della valle Argentina.
Ma il tempo cambia tutto in abitudine: in virtù dei rapporti lavorativi che andavano sempre più intensificandosi si giunse alle prime amicizie maschili tra terrui e taggiaschi vissute alla luce del sole. Quando poi a questa prima fase di studio, fecero seguito i primi matrimoni misti, lentamente, con lo scorrere degli anni, i due gruppi componenti il tessuto sociale, finirono per imparare a convivere.
La parabola del multietnicismo tabiese era tutt’altro che esaurita però, e la piazza continuò ad esserne la fedele cassa di risonanza e l’accogliente contenitore di pulsioni tutte mediterranee, è vero, ma, per così dire, diverse tra loro.
Dalla fine degli anni ’70, prima sul litorale poi via via  anche nell’entroterra, fecero la loro comparsa i primi venditori ambulanti nordafricani. Carichi di paccottiglia, di miseria e, naturalmente del loro idioma, rappresentarono agli occhi incuriositi ma non sempre ospitali dei frequentatori abituali di Piazza Eroi, l’opportunità palese e, ahimé, non recepita, di dimostrare di aver appreso qualcosa dalla ciclicità della Storia. Ai taggiaschi infatti, ora si univano anche gli oriundi calabresi, dimentichi di ciò che fino a qualche anno prima avevano dovuto subire, nel rendere tutt’altro che sopportabile la permanenza dei magrebini. Come in un déjà vu dal retrogusto amaro, gli stereotipi, le discriminazioni, le offese, in qualche caso le botte, ritornavano a regolare i rapporti con gli ultimi arrivati: gli estranei, i diversi.
Ma proprio come per i calabresi, anche gli ultimi arrivati finirono per fare della loro miseria e della loro diversità culturale, gli strumenti per resistere ed adattarsi. 
Stavano di fronte alla pensione Florida, all’angolo nord-est della piazza: era diventanto col tempo il loro angolo, l’angolo dei vu cumprà.
Rotolano gli anni velocemente  e giungiamo con questa nostra rapida carrellata sulle varie componenti etniche della popolazione taggese, all’ultimo capitolo fino ad ora scritto.
L’informazione, le notizie, vere o false che siano, persino i pettegolezzi più stupidi, raggiungono, grazie al progresso tecnologico, popoli anche molto lontani da noi. Figuriamoci poi quelli che vivono sull’altra sponda dell’Adriatico o a sud di Tunisi o di Marrakesh: durante tutti gli anni ’80 avevano avuto sotto gli occhi, grazie alla televisione, le immagini di un Italia benestante, di un’Italia “da bere”, del nuovo paese del bengodi, del posto dove i soldi si guadagnavano facilmente e velocemente. Iniziò così un esodo verso lo Stivale, proveniente soprattutto  dall’area balcanica, ma anche dall’Africa sub-sahariana, e da alcuni paesi orientali, reso possibile dalle barche della mafia e dalla complicità delle autorità dei paesi d’origine, che - anche qui corsi e ricorsi storici tipo italiani nel secondo dopoguerra - vedevano così attenuarsi pericolose tensioni sociali. Gli slavi, soprattutto albanesi, alla scoperta del loro bengodi, si sparsero per tutta la penisola e Taggia come moltissime altre località italiane, rivisse non senza un certo disappunto una nuova invasione di forestieri.
La piazza intanto, aveva testimoniato nuove collocazioni etniche. I calabresi, ormai non più entità estranea alla popolazione indigena, si erano spostati, a seguito della loro ultimata integrazione, nell’angolo nord-ovest del salotto cittadino, quello storicamente occupato dai locali, liberando così quella che era stata la loro porzione storica di suolo pubblico, quella a sud-ovest. Porzione che, a sua volta, è stata ed è ora occupata dagli albanesi. Ed è lì che la mattina i vassalli al soldo dei baroni taggiaschi del fogliame ornamentale passano a prenderli per condurli ad una giornata di lavoro pesante, non assicurata e sottopagata. Caratterizzata inoltre dalla sistematica distruzione del sottobosco appeninico dove l’ibisco, la mortella, il lentisco non sono più, purtroppo, meravigliosi e millenari esempi di flora locale, rifugio e in qualche caso cibo della locale fauna, ma mazzi da vendere a peso per abbellire il soggiorno delle case nord-europee.
Capita che, magari in preda ai fumi dell’alcool, consapevole dello sfruttamento, dei maltrattamenti, della frustrazione per la delusione per questa Italia che quando la “bevi” ti lascia in bocca un gusto amaro, capita che qualcuno degli slavi, diventi violento. Allora lo stereotipo per cui gli albanesi sono tutti “delinquenti e le loro donne tutte bagasce”, salta di nuovo fuori prepotentemente. E se proverete, con coloro che già si sono integrati, ad argomentare, vi gratificheranno di uno sguardo tra l’incazzato ed il compassionevole e nella migliore delle ipotesi vi sentirete dire che “potevano starsene a casa loro”!

Danilo Sidari

Saturday, October 23, 2010

LINGERIE

Ho bruciato indumenti di pizzo
in un ultimo gesto di sfida.
Ed ho visto le lingue di fuoco
liquefare la tua màlia.
Quattro pezzi di serica stoffa,
stanca offerta di voglie mai sazie
resi cenere da fiamme di forza.
Il rancore è un esoso alleato.
Non è il tempo, non più,
degli specchi mandati in frantumi.                                    

Danilo Sidari - 2005

Tuesday, October 19, 2010

QUANTUM MECHANIC

In una notte qualunque
di un tempo senza significato
rischiarata appena dalla luce, timida,
di mille galassie
due fasci inquieti d’energia
trovarono infine requie
in un’equazione matematica
di ipotetiche fughe di quanti
nel quale un dio benevolo e distratto,
non senza una certa malizia,
aveva inserito la variante
di qualche particella di desiderio                                        

Danilo Sidari -19 ottobre 2010

I RAGAZZI DEL FIUME

Ascolta il coro delle voci dei punk irriverenti
dei loro saggi vassalli e delle loro puttane
e di colui che giocava coi colori e preferì fuggire
e di chi offriva medaglie in cambio di emozioni
e di quelli che giunsero tardi per l’anisetta ghiacciata
e di chi trovò ispirazione tra le cosce di una danzatrice  
e di chi versava brocche di sapienza
nelle gole riarse di vecchi camionisti

E di chi corre instancabile su e giù per l’universo
dietro a un pallone e a un gruppo di bambini
e di chi cammina in bilico, con perizia e coraggio,
sull’impalcatura che regge il cielo.
Il pomo dunque stacca dal ramo
e in esso affonda i denti bianchi
della tua saggezza di padre.
E’ tempo di dar vita al sogno.

Vedi bene, uomo,
lo struggimento per le cose perse
trascinarci via.
E ci vedi a stento aggrapparci
ai versi del bardo occitano
o a quelli del poeta di Palizzi
che cantano il loro amore
a un telefono portatile.

Le bottiglie svuotate riempiono la mente
con la processione dei perdenti.
Salmodiando sufi pakistani
si attorcigliano in un’infinita spirale
e versano sui nostri nervi scoperti
l’unguento dolce della malinconia
mentre severi ci inchiodano
alla nostra scelta di aver dato la vita.

E’ giunto il tempo di celebrare
questo sospirato battesimo
troppo a lungo nascosto
tra i canneti chini al mistrale
sulle rive che odoravano di fango
nei guizzi argentei dei cefali
o dietro ai vetri appannati di un’auto in inverno
rifugio tenero di giovani irruenze.                                              

Danilo Sidari - 2004

LA MAREGGIATA

- Sei in casa – mi chiede una voce nota da dietro lo steccato interropendo le mie scorribande mnemoniche.
E’ Joe, il vicino di casa, al secolo Giuseppe Melillo, pugliese di Trani cresciuto tra Porto Said e Cairo, cranio rasato e fisico asciutto, settanta ben portati, un metro e sessanta centimetri di abbronzatura profonda, braghe bianche di lino e camicia hawayiana multicolore, scarpe St. Louis professionali: è pronto per andare in balera. Balera! Si fa presto a dire balera rievocando così immagini ben definite di particolari sale da ballo italiane che ci hanno visto crescere  al suono di valzer e tanghi, qualche rock&roll e quei lenti che quando li ballavi le gambe si muovevano appena ma le mani correvano impazzite ad esplorare, o a rintuzzare, certe fantasie.
No! Melillo va a ballare boogie-boogie e latino-americano in un club ad Ashfield che è la sede dei Tigers, una delle squadre cittadine di rugby. C’è un’enorme posteggio, diversi bar, un paio di ristoranti, l’immancabile casinò, imprescindibile fonte di sussistenza, e il salone danzante con l’angolo per l’orchestrina. Joe va lì il venerdi, il sabato e la domenica sera e passa il resto del tempo a prendere il sole in mutande nel giardino antistante la sua casa o a dormire per recuperare dalle fatiche danzanti della sera prima. Ma sa anche rendersi disponibile, se serve, e poi ci facciamo compagnia!
- Ma tu che sei ligure, quand’eri a Genova, ci andavi in Via del Campo - mi chiede sornione alitando sul suo anello d’oro e strofinandolo con nonchalance sulla camicia tropicale per lucidarlo.
- Noi – attacca il vicino di casa – si navigava! Si saliva da Porto Said o da Alessandria con la stiva piena di sacchi di noci, di datteri, di spezie, di caffè e si tornava a casa con i mattoni d’acciaio, tutta roba fusa nelle acciaierie Ansaldo – mi spiega con un certo orgoglio professionale.
- Un giorno eravamo a Genova - prosegue Giuseppe - un’altro a Said, un’altro ancora a Barcelona. Oppure a Napoli o a Marsiglia o a Tunisi. Stesse facce, stesse storie, stesse taverne. Piccole stradine buie e puzzolenti dietro a splendide promenades soleggiate e frequentate da creature sensuali ed inavvicinabili per noi marinai o macchinisti. Quando poi il richiamo del sangue diventava troppo forte ci si buttava nel dedalo dei vicoli dietro le calate dove si sapeva che lavoravano le ragazze - sospira con una certa nostalgia.
- La tariffa era di duemila lire e che donne - biascica vizioso ma poi una boccata della sigaretta gli va giù storta ed inizia a tossire.
- Ci andavamo - riprende - anche per farci due risate: si vedevano in giro certe facce!  Si avvicinavano alla ragazza che gli piaceva e si guardavano attorno circospetti prima di chiedere il prezzo, come se lì attorno fossero gli unici ad andare a puttane. Figurati - precisa ironico - in Via del Campo- e lascia cadere lì la frase con un tono atto a sottolineare la nostra consolidata complicità.
Ci andammo Joe, ci andammo una domenica di novembre! Eravamo quattro garzunetti sedicenni per la prima volta in città da soli: i jeans buoni a zampa d’elefante ed il maxi-cappotto, i ray ban, le marlboro e due o tre biglietti da diecimila in tasca, tutti i nostri averi. Il treno era il diretto per Milano delle nove e mezza ed arrivò a Principe che era quasi mezzogiorno. Quattro passi per ambientarsi un attimo, giù fino a Caricamento, discorrendo di prestazioni sessuali fino al quel punto solo immaginate o delle partite di pallone del pomeriggio. Un analcolico per darci un tono ed a seguire minestrone, trippe, quartino e caffè in una trattoria vicino alla cattedrale di San Lorenzo. Dopo il pranzo, sempre per darci un tono, decidemmo che a donne non ci saremmo andati prima delle tre. Tornammo quindi verso il porto: una camminata per digerire e per attenuare quell’aspettativa, quell’ansia  che aumentava e che nascondevamo fumandone una dietro l’altra. Che mareggiata quel giorno, Joe, certi cavalloni! Persino i traghetti per Porto Torres e per Bastia dondolavano seppur attraccati ai moli. E poi la scena della pilotina che perso l’ormeggio, sbattè parecchie volte contro la banchina di cemento e poi iniziò lentamente ad affondare sotto lo sguardo esterefatto del proprietario che accorreva impotente, urlando irripetibili bestemmie.
Assistemmo in silenzio alla rovina del natante, incapaci di commentare la furia del mare. Ma ad un certo punto Rubi diede un’occhiata all’orologio e con urgenza nella voce disse:
- Belin ragazzi, sono le tre e dieci!  Allora andiamo? Non vogliamo mica fare tardi con il treno. Ce n’è uno alle quattro e mezza e quello dopo è alle sei e un quarto ed arriva a casa alle nove passate. A quell’ora, chi lo racconta a mio padre che siamo andati  a fare una scampagnata a Triora - si chiese accigliato.
Eccoci dunque a passeggiare con falsa noncuranza nel carugio. Sopra le nostre teste sventolavano i panni stesi al sole freddo di quel pomeriggio ed intorno a noi uomini e donne offrivano la loro mercanzia, chi con fare circospetto, chi con sorrisi invitanti. Noi commentavamo a voce esageratamente alta e ridevamo sguaiatamente per un nonnulla mascherando così la nostra insicurezza. Ma le ragazze sapevano il fatto loro e deliziandoci con la vista dei loro attributi fisici, generosamente esposti, ben presto ci fecero perdere ogni remora. Dopo aver stabilito i turni, sparimmo sù per quelle scale strette, rimbombanti delle voci di Ciotti e Martellini e permeate dell’odore dei cibi cucinati per il pranzo della domenica.
Giusy, così mi disse di chiamarsi, avrà avuto trent’anni. Mora, piccola, ben fatta, i capelli lisci sulle spalle, gli occhi scuri, indagatori, il naso aquilino e due labbra piene color carminio. Mentre le chiedevo intimidito il prezzo del suo favore, non riuscivo a staccare gli occhi dalla sua generosa scollatura. Lei, che naturalmente aveva già inquadrato il soggetto, sorrideva e ad un tratto prese la mia mano e l’accompagnò per un breve tragitto sulla sua coscia, dal ginocchio verso l’inguine. Poi mi disse quanto voleva. Era tanto, forse troppo, ma in me, a quel punto, la curiosità era diventata urgenza ed acconsentii.
La mia prima alcova fu una stanzetta in penombra, male areata da una finestrella che dava su un cortiletto interno, con i muri tappezzati di carta arabescata amaranto lacerata in più punti. Lo scarno arredamento comprendeva un letto a due piazze su cui troneggiava una grande bambola vestita di tulle nero, un paio di seggiole impagliate ed un comodino con un’abat-jour ed una radio a transistor da cui Lucio Battisti ci assicurava con voce cantilenante che no, non era Francesca!
Cercai goffamente di stringerla a me ma ricevetti una leggera spintarella e la richiesta di pagare in anticipo. Quando ebbe in mano le mie quindicimila lire, sembrò soppesarle per un attimo poi disse:
- Se sei sincero, ti faccio lo sconto di cinque sacchi! Ma devi dirmi la verità: è la prima volta, vero?
Balbettai qualche parola incomprensibile per nascondere il mio imbarazzo. Lei iniziò a piegare con cura le banconote per riporle nella borsetta.
Diamine, cinquemila lire erano cinquemila lire e poi, vuoi mettere, la considerazione degli altri quando avrei raccontato di un tale favore? Con un soffio di voce ammisi che si, era la prima volta.
- Come hai detto, non ho sentito bene – insistette lei sorniona
- E’ vero, ho detto, è la prima volta che...che..si insomma che lo faccio completamente – chiarii chinando gli occhi.
Posò i soldi sul comodino e mi strinse a sè. Poi ricordo solo i miei movimenti impacciati ed i suoi, invece, sicuri e il suo viso che spiava con tenerezza il mio, arrossato, il mio respiro che accellerava, il mio spasimo finale che, ahimè, giunse molto in fretta.
Durante quei brevi minuti e fino a che il mio ansimare non si fu placato, continuò ad accarezzarmi i capelli con dolcezza.
Credo che le dissi di amarla e che sarei tornato la prossima domenica a trovarla.
Si volse verso il comodino, prese la banconota da cinquemila lire e me la porse:
- Vestiti, fammi il piacere! Vestiti e scendi da solo ché voglio fumarmi una sigaretta tranquilla – mi rispose con un’espressione tra il tenero e l’annoiato.
Ci andammo, Joe, ci andammo in Via del Campo! Che mareggiata quel giorno!

Danilo Sidari - 2005

STRASCICHI

Balla donna.
Balla il clarino e la fisarmonica.
Balla Rebecca.
E i Balcani e il sud della Francia.
Balla femmina
il tuo allontanarti e la mia gelosia.
Balla il sangue che ti scorre nelle vene
e i tuoi sospiri.
Balla farfalla, balla
e infine cadi tra le mie braccia.
Ché ho saputo attendere
ed ora ti avrò.                                                       

Danilo Sidari - 26 giugno 2005

Saturday, October 16, 2010

IL MESTIERE DELLA RIMA

Bastassero un paio di righe
Un sintetico frullo di versi
Per aiutare la mente a chiarirsi
Emozioni che sembrano vaghe

Che poi così vaghe non sono
Tanto è vero che le metto in rima
Una in particolare, malandrina
Rimbomba nella mente come tuono

Sto parlando d’Amore, hai già capito
Dell’alchimia bizzarra del cercarsi
La danza dei serpenti, il cieco volersi
Quello che cambia il vuoto in riempito

E sono quasi tutti lì i miei tardi affanni
Il camminare incerto dei miei anni
Il fatto che nel mero concupire
A un certo punto salta sempre fuori il Cuore                             

Danilo Sidari 18/04/2010

Friday, October 15, 2010

Mischiando colori...

Siediti e ascolta

L'essenza segreta del sedere
ad un tavolo da soli
tu non cogli
e dell'acuta e nascosta indulgenza
che l'arbitrio assoluto procura
tu non sai.
E in dispregio di ciò,
da tempo,
vai parlando d'amore.

Danilo Sidari 2010

A mio padre

Casa vuota, silenzio
penombra pomeridiana
odore di assenza.
Mi aggiro smarrito
per le stanze deserte
ti cerco, mi affanno
Ed eccoti, infine:
un rasoio lasciato li
ad attendere una barba
che ha smesso di crescere.

Danilo Sidari 2010

Monday, October 4, 2010

STAND CLEAR, DOORS CLOSING

Danilo Sidari - 2002


- The train on platform one goes to North Sydney! Next stop is Westmead, then Parramatta, Granville, Lidcombe, Strathfield, Redfern, Central and then all station to North Sydney. Stand clear, doors closing! 
Era la mia sveglia ogni mattina! Ero regolarmente in ritardo quando caracollavo giù per la collina verso la stazione alle sette e quaranta, come nella canzone di Lucio Battisti. Avrei potuto tranquillamente interpretare uno di quegli sketch di mister Bean senza dover improvvisare, bastava nascondere una telecamera!
Tutto si svolgeva – ma anche adesso ogni tanto - come in un dormiveglia leggermente accellerato e improvvisamente mi ritrovavo in una delle stazioni succitate oppure, nelle mattine particolarmente nuvolose e buie, direttamente in ufficio sotto la luce rassicurante del neon.
Ora ho cambiato treno! Arrivo in stazione che quello per Campbelltown è appena partito, mi godo in disparte l’assalto al North Sydney delle otto meno un quarto e poi prendo il Gordon delle sette e cinquanta: vuoto! La stazione è quella di Seven Hills: i sette colli come a Roma! Ma qui è un bel quartiere dormitorio col suo bel centro commerciale, tutte le casette in fila e i praticelli da falciare al sabato pomeriggio e Trastevere, il Cupolone, Porta Portese e la Fontana di Trevi, sono su un’altro pianeta!
Stesse facce di sempre alla stazione: i personaggi sono sempre gli stessi e si finisce per collegarli a particolari situazioni, a brandelli di memoria, a semplici fantasie. Fantasie alle quali a volte mi piacerebbe poter attribuire ben altre valenze, ma che invariabilmente finiscono per rivelarsi per quello che effettivamente sono: giochi immaginifici del mio cervello in fase di risveglio.
Impressi a terra con vernice blu, ad una distanza di circa venti metri uno dall’altro, sono ben visibili per tutta la lunghezza della banchina dei marchi segnaletici. Divisa in gruppetti di quindici o venti persone ciascuno, che  si formano in corrispondenza di questi segnali, staziona la gente che aspetta il treno. Non appena  gli sportelli dell’espresso delle sette e quarantacinque si aprono automaticamente in corrispondenza dei marchi che dicevo, parte l’assalto alla diligenza!
Prima mi affannavo anch’io e so cosa vuol dire! Si è tutti lì, con le scarpe e la ventiquattrore allineate sulla linea gialla di sicurezza tracciata sul bordo del marciapiede, fintamente assorti ed invece vigili nel mantenere la posizione conquistata così da avvantaggiarsi quando si sale sul treno ed occupare uno dei pochi posti a sedere rimasti liberi. Perchè stare in piedi per quarantacinque minuti su di un treno metropolitano che va progressivamente affollandosi, non è la più confortevole delle esperienze e a volte si instaura una certa tensione!
Invece il treno per Gordon è sempre vuoto e si può scegliere dove sedersi: non c’è stress, insomma!
Beh, se proprio devo fare il pignolo ci sarebbe quella giovane donna australiana, insomma bianca voglio dire, anche piacente se vogliamo, ma con quell’espressione sempre incazzosa, nasino all’insù, capelli ramati L’Oreal sistemati in una treccia da collegiale, espressione da bambina puntigliosa e possibilmente dispettosa.
Lei, malgrado la certezza che troverà da sedersi, non sopporta che qualcuno salga sul treno prima di lei. Così si mette lì davanti, oltre la linea gialla di sicurezza, le mani nelle tasche del giubbotto e i gomiti allargati, ad impedire ogni tentativo di sorpasso e appena il convoglio si ferma, quando ancora le porte automatiche non sono completamente aperte, salta sù e scendendo precipitosamente la scaletta che porta allo scompartimento inferiore, và a prendere posto, sempre lo stesso, con un’espressione da ragazzetta maliziosa che ti ha fatto un dispetto. Comunque ho finito per abituarmici e per la verità anche lei ormai fà parte della monotonia quotidiana. Che stando alla casistica degli ultimi due anni, da quando cioè ho inziato a frequentare questa stazione ferroviaria, non viene mai interrotta se non dal tipo della Salvation Army che raccoglie oboli il venerdi mattina.
Non sempre però! Qualche volta capita che un imprevisto, un piccolo cambiamento alle abitudini, distragga noi pendolari dalle nostre elucubrazioni mattiniere.
Stamattina ad esempio, la colleggiale incazzosa era in compagnia di un belloccio, sulla trentina, calvo, impeccabile taglio di sartoria: insomma l’avresti detto un buon partito. 
Già solo questo, ne sono sicuro, sarebbe bastato a scuotere almeno un pò le abitudini consolidate ed a fornire materiale di pettegolezzo per almeno un paio di coppie di lavoratrici domestiche pakistane che si incontrano in stazione andando al lavoro.  Ma il bello doveva ancora venire!
I due parlottavano a bassa voce e malgrado ostentassero indifferenza, mi era parso che fra  loro si profilasse qualche nuvolone all’orizzonte, stando ai loro occasionali sguardi indagatori, che scrutavano all’intorno come per accertarsi che nessuno avesse sentito ciò che si dicevano.
Mancavano ormai solo un paio di minuti all’arrivo del treno quando l’annuvolamento si è trasformato prima in forte precipitazione e poi, per finire, in tempesta furibonda. L’uomo ha iniziato a piangere senza ritegno e tra i singhiozzi le chiedeva ripetutamente di non lasciarlo, di non andarsene! Lei dal canto suo, bè, non avevo mai visto la sua espressione da bambina puntigliosa e possibilmente dispettosa rimodellare così marcatamente i tratti del suo viso. Con un’espressione tra lo schifato e il compassionevole, si rivolgeva all’uomo solo per esortarlo a smetterla visto che tutti li guardavano mentre lui non sembrava darsi pace. Anzi ad un certo punto, come avesse trovato al fondo di tutto il suo dolore l’ultimo grammo di rancore di cui era capace, ha iniziato ad insultarla pesantemente apostrofandola con épiteti irripetibili. L’altoparlante annunciava l’arrivo del treno e l’imbarazzo tra noi viaggiatori in attesa cresceva sempre di più per la scena a cui stavamo assistendo.  Ad un tratto la diga di apparente indifferenza che lei aveva eretto di fronte alle suppliche prima e agli insulti poi, è crollata miseramente e con grande fragore. Lo scambio tra i due andava sempre più assumendo il carattere di una rissa verbale tanto che qualcuno si era allontanato per avvertire il personale di Cityrail. La giovane donna infatti ha cominciato a urlare, ribattendo colpo su colpo agli insulti che riceveva. Ma alla grossolanità di lui, contrapponeva argomentazioni molto più fini, chirurgiche, volte a rimarcare determinati aspetti caratteriali dell’uomo, ma non meno devastanti se si considera l’effetto che hanno prodotto.
Il treno stava sopraggiungendo e io mi ero già piegato sulle ginocchia per sollevare da terra la valigetta ventiquattrore che uso per portare al lavoro il gamellino di plastica con la pasta al sugo da riscaldare nel microonde o il panino con la mortadella, quando la tragedia è deflagrata improvvisa ed inaspettata, come un grosso petardo esploso a distanza troppo ravvicinata. 
Abbiamo tutti udito lei urlare senza più ritegno, accuse di scarsa mascolinità e di esasperante edipicità all’indirizzo del suo, apparentemente, ex-amante.
La reazione di lui è stata altrettanto imprevedibile: si è immobilizzato e sul suo viso, tra le lacrime copiose, è comparso un sorriso dolce, come quello di un bimbo che pensa al suo giocattolo preferito e proprio quando ormai il Gordon delle 7,50 era a non più di quindici metri e non poteva più arrestarsi, ha spinto la donna giù dalla banchina.
Ho fatto in tempo a mollare la valigetta ed a coprirmi gli occhi con le mani, ma mi è rimasto nelle orecchie l’urlo di lei e il tonfo sinistro provocato dal suo corpo investito dal locomotore!