Monday, November 29, 2010

L’ABITO

Quando poi di un sorriso si tratta
E un sorriso è un bell’abito a festa
Ch’esso vesta colei che in quel giorno
In quel modo ed a suo proprio gusto
Infilare lo voglia.
Pena sai porta seco, e rammarico
L’arroganza di scegliere in vece
Quando sai che quel taglio di stoffa
E' virtù di chi deve indossarlo

Danilo Sidari - 29 novembre 2010

CON LE CARTE IN REGOLA

TERZA PUNTATA

Il poeta delle barricate 

Leo Ferré nasce nel Principato di Monaco il 24 agosto 1916.
All'età di otto anni viene internato in un collegio cattolico gestito dai preti a Bordighera, nell’estremo ponente ligure, rimanendovi fino all'adolescenza. Questa esperienza lacerante forgerà la sua coscienza politica e verrà raccontata nel romanzo Benoit Misère scritto nel 1956. Intraprende gli studi in Legge a Parigi e li deve interrompere a causa della mobilitazione per l’imminente guerra. Viene arruolato col grado di sottotenente e essendosi subito distinto per aver capeggiato una protesta antimilitarista, viene rispedito a casa.
Termina gli studi a Nizza e dopo la guerra, nel 1946, si insedia a Parigi dove prende a cantare nei cabaret di Saint-Germain. E' l'epoca in cui nasce la nuova canzone francese del dopoguerra che in Ferré mostra connotazioni di denuncia sociale fusa in  picchi poetici di rara intensità. Stringe amicizia con gli anarchici spagnoli sfuggiti alle torture di Francisco Franco e frequenta i circoli libertari parigini. I temi di provocazione si susseguono incessantemente nelle sue canzoni: Monsieur Tout Blanc contro Pio XII, Mon General contro De Gaulle, Allende contro Pinochet. Scrive una trilogia contro la pena di morte. Mette in musica i poeti maledetti dell'ottocento francese. Nel 1953 va in scena l'oratorio lirico La chanson du mal-aimé con sue musiche su testo di Guillame Apollinaire. Nel 1954 scrive e dirige la Symphonie interrompu. Nel 1956 pubblica il libro di poesie Poete, vos papier! e negli anni a seguire Testament Phonographe in diverse edizioni arricchite di nuovi testi. Accoglie con fraternità prima il movimento beat, poi il Sessantotto. Nel 1973 si trasferisce in Italia, a Castellina in Chianti con la moglie Maria e i figli Matteo, Cecilia e Manuela. Nell'83 scrive L'Opera du Pauvre, forse il vertice massimo della sua espressività. La sua attività artistica ed il suo impegno sociale non vedono soste fino alla sua scomparsa. Numerosi i suoi concerti i cui proventi vanno a finanziare progetti di utilità sociale. Nel 1991 firma una lettera con altri intellettuali francesi contro la guerra del Golfo. Dell’agosto 1992 a meno di un anno dalla sua morte, è da datare la sua ultima apparizione in pubblico. Muore a Castellina in Chianti il 14 luglio 1993 e le sue spoglie sono tumulate nel cimitero di Monaco.


Léo Ferré è un artista dai molti volti. Sebbene egli sia conosciuto soprattutto come interprete dei suoi brani, la sua vasta e variegata produzione artistica comprende canzoni, poesie, sinfonie, opere, saggi e romanzi.  E' per questo che inquadrandolo come semplice cantastorie della resistenza antiborghese si rischia di non coglierne le diverse sfumature e le profonde mutazioni cui ha sempre sottoposto la propria materia linguistica ma soprattutto quella musicale. Ferré è un musicista talentuoso e le sue composizioni offrono una gamma impressionnante di generi e di ritmi, dalla ballata popolare alla raffinata sinfonia classica. Il suo eclettismo gli permette di usare formule musicali che vanno dall’a-solo con il pianoforte, all’orchestrina di varietà, dal gruppo tipicamente pop-rock alle grandi orchestre sinfoniche. Da ricordare infine che Ferrè scrive tutti gli arrangiamenti orchestrali e non di rado dirige lui stesso l’orchestra.  
A livello letterario, con la sua poesia e mettendo in musica i versi dei poeti francesi Villon, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Apollinaire ha recuperato il simbolismo decadente e si è posto in completa antitesi con l’esistenzialismo di Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir  trovandosi invece in piena sintonia con la nouvelle vague dei registi Truffaut e Godard e con il surrealismo di Salvador Dalì.
Ferrè è stato un artista prolisso e solo elencare i suoi lavori richiederebbe probabilmente un’intera trasmissione. In 42 anni, dal 1950 e ininterrottamente fino al 1992, ogni anno ha visto una o più produzioni discografiche da lui firmate. Mi limito quindi a segnalare gli album che la critica considera più significativi e che sono
nel 1957 Les Fleurs du mal chantées par Léo Ferré
nel 1964 Verlaine et Rimbaud chantés par Léo Ferré; nel 70 Amour Anarchie; nel 72  La Solitudine raccolta di alcuni suoi brani tradotti ed interpretati in Italiano e ancora nel 72  Avec le temps - nell’83 L'opéra du pauvre; nel 90 Les vieux copains; e infine nel 92 Une saison en enfer
A questa prolificità musicale dobbiamo aggiungere quella letteraria che comprende una dozzina di grandi opere che includono raccolte poetiche, romanzi, saggi metodologici incentrati sulla sua etica socio-esistenziale ed il suo approccio compositivo, libretti d’opera e sceneggiature radiofoniche e la sua autobiografia. Segnaliamo le raccolte di  poesie POETES,VOS PAPIERS del 1956 e  Testament Phonographe del 1980, la sceneggiatura radiofonica  De sacs et de cordes  del 1951, i romanzi Benoît Misère del 1970 ed Alma Matrix del 1993 ed il saggio letterario- musicale del 1979 La Méthode. 

Friday, November 26, 2010

CON LE CARTE IN REGOLA

SECONDA PUNTATA

Il Meticcio    
Molti italiani, che magari conoscono poco gli chansonniers francesi, si ricordano invece molto bene di Georges Moustaki. Il merito è della canzone «Lo Straniero», Le Meteque, cioè Il Meticcio nella versione originale, un brano che ebbe un successo internazionale straordinario. Si tratta di una miscela perfetta di poesia alla portata di tutti, fusa in una melodia di accattivante semplicità, dalle forti reminiscenze mediterranee e interpretata da una voce quasi afona ma molto sensuale.
Ma Moustaki, che ha scritto Le Meteque ispirandosi al soprannome offensivo con cui viene apostrofato in certi ambienti parigini, non è nè allora, né dopo, un prodotto pensato a tavolino dai discografici. Arriva al successo già maturo e dopo una lunga gavetta. Nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1934 e dopo l’esperienza scolastica vissuta  in un ambiente cosmopolita e multi-religioso, giunge a Parigi pressoché diciottenne  alla fine del 1951, all’epoca di quella bohème gloriosa in cui si va formando il meglio della seconda generazione della grande canzone francese. L’intenzione è quella di occuparsi di giornalismo e la musica è una passione secondaria con cui, in caso di bisogno, si prefigge di arrotondare le entrate. Finisce a vendere libri porta a porta ed a comporre canzoni la cui notorietà resta circoscritta alla cerchia degli amici. Si esibisce regolarmente nei localini parigini ma non sembra voler forzare le tappe della notorietà. Poi conosce Edith Piaf, con cui instaura una relazione sentimentale, e per lei nel 1958 scrive Milord che diventa un successo internazionale che gli garantisce notevoli guadagni ma che non favorisce in alcun modo il suo lancio personale.


Quando i due si separano,  Moustaki rientra in un confortevole anonimato ma inizia a  collaborare e a scrivere canzoni per i più grandi interpreti dell’epoca, da Henri Salvador a Yves Montand, da Juliette Gréco a Dalida, a Serge Reggiani.  Passano circa dieci anni ed i tempi maturano per Georges che col passare del tempo e grazie alle collaborazioni artistiche ed agli innumerevoli viaggi ha trovato una sua propria voce, un tono di scrittura adatto alla sua ricerca, una raggiunta maturità etico-artistica in cui si fondono l’ottimo autore, il grande viaggiatore, l’uomo affascinato dalle molte forme della comunicazione e l’implacabile critico della società.


Riporto ora un brano tratto dal libro-intervista a Georges Moustaki, Un chat d’Alexandrie di Marc Legras del 2002:
Intendo l’anarchia in senso etimologico cioè un non-potere staccato da ogni compromissione e da ogni gerarchia. L’anarchia non è il disordine, ma l’ordine di ciascuno.
Troppa gente usa questa parola  semplificandola o snaturalizzandola, associandole il casino e la violenza. Ma i tentativi storici  di gestione anarchica hanno sempre denotato  maturità e senso dell’assoluta equità. Ho trovato, presso gli anarchici, un ideale alto e nobile. Da Paul Lafargue, a Proudhon, da Jacques Prevert a Bakunin, il discorso della contestazione anarchica riflette un’aspirazione alla felicità, a una vita migliore e più rispettosa.”

Nel 1969 esce in Italia il brano Lo straniero che gli rende fama anche nel nostro paese e che viene presto seguito dalla canzone La mia solitudine. Ma l’Italia rappresenta solo una tappa del lungo viaggio artistico-esistenziale di Moustaki
Moustaki interpreta il lavoro come un continuo girovagare alla ricerca di incontri e confronti.  
È stato per questo uno dei pionieri delle contaminazioni musicali, collezionando un’impressionante serie di collaborazioni artistiche con musicisti delle più diverse provenienze: Astor Piazzola, Mikis Theodorakis, Antonio Carlos Jobim, Henry Salvador, Chico Buarque de Hollanda, ed anche gli italiani Ennio Morricone, Francesco Guccini, e Bruno Lauzi. Nel 1999  viene nominato Artista per la pace dall’UNESCO.
Nel 2004, dopo aver pubblicato un nuovo disco di brani originali, parte di nuovo in tour, toccando tutta l’Europa, con un omaggio in memoria dell’amico Serge Reggiani da poco scomparso. 
Oggi, con alle spalle una carriera di grande coerenza etica ed estetica, il trovatore è ancora per strada, passa solo di rado un mese intero nel medesimo paese, per raccontarci le sue storie, cercando di imparare qualcosa e di fare canzoni da tutto, piccole gioie e grandi tormenti, come un vecchio allievo della vita.


La produzione  discografica e bibliografica di Moustaki è vasta. Essa comprende a tutt’oggi 27 album editi, di cui 7 registrati dal vivo, una quadrilogia, una trilogia e alcune raccolte delle sue canzoni. Tra i più significativi album ricordiamo LE MÉTÈQUE del 1969, DÉCLARATION del 1973,  VOYAGES ET RENCONTRES del 1989 ed i più recenti LES ENFANTS DU PIREE del 1997 e PRESQU'EN SOLO, dal vivo, del 2003.                                                                                                   
Sono invece 11 i libri firmati da Moustaki che includono raccolte di poesie e testi di canzoni, romanzi e libri-intervista di carattere biografico o inerenti la sua creazione artistica scritti sia da solo, sia in collaborazione con altri autori.

  

Danilo Sidari - 2008

Thursday, November 25, 2010

CON LE CARTE IN REGOLA

PRIMA PUNTATA

Ciao. Vi propongo una serie di appuntamenti musicali andata in onda sull’emittente radio nazionale australiana multietnica SBS nel 2008. Vi proporrò un gruppo di autori- interpreti, donne e uomini di diversa nazionalità, famosi o poco noti al pubblico italiano, che oltre a trovare concordi i più autorevoli critici sul livello assoluto della loro cifra artistica, hanno usato ed usano la canzone come strumento chi di introspezione, chi di confronto, chi di denuncia, facendo della coerenza tra parole cantate e fatti cioè tra ideologia ed esistenza quotidiana, un presupposto etico imprescindibile. Ecco perchè scelsi a suo tempo di chiamare questa trasmissione “Con le carte in regola”. Ho dedicato ad ognuno di loro uno spazio relativamente limitato con cui ho cercato di addentrarmi nella dimensione personale delle loro scelte ideologiche, etiche e spirituali. Spero così di mostrarvi come esse hanno eventualmente determinato la loro esigenza creativa e come hanno influenzato il loro percorso esistenziale ed artistico. Cercherò infine di evidenziare attraverso l’ascolto di alcuni brani del loro repertorio, i tratti salienti della loro poetica, della loro musica e del loro stile interpretativo.  


Il bohemienne   
Iniziamo quindi da un artista che a giudizio unanime della critica è considerato uno dei padri putativi della canzone italiana d’autore. Malgrado ciò, egli muore a Roma nel 1980, solo e pressochè sconosciuto al grande pubblico: stiamo parlando di Piero Ciampi. Ciampi nasce a Livorno nel 1934 e le notizie sulla prima parte della sua vita sono scarne. Dopo il periodo bellico e le scuole superiori, Piero si iscrive alla facoltà di Ingegneria a Pisa ma non termina gli studi e torna a Livorno dove per vivere, vende olii lubrificanti. Intanto studia da autodidatta il contrabbasso e con i fratelli Roberto, poeta, e Paolo, clarinettista, si esibisce in localini del livornese. Parte per il servizio militare e nella caserma di Pesaro conosce il musicista genovese Gianfranco Reverberi. Ritornato a Livorno riprende la solita vita ma nel 1957 inaugura una stagione di fughe che durerà per tutta la vita. La prima partenza è assolutamente drastica perchè con pochi quattrini in tasca, una chitarra e un biglietto di sola andata, parte per Parigi.
Nella capitale francese e nella sua atmosfera esistenzialista della fine degli anni ‘50 nasce il Ciampi chansonnier. Inizia scrivendo poesie sui tovagliolini di carta delle birrerie e la sera le canta nei locali che frequenta in cambio di pochi franchi.  Frequenta il poeta Céline e va ad ascoltare i concerti di Georges Brassens, di Jacques Brel, di Edith Piaf.
Vive di stenti e arrotonda le magre entrate che gli vengono dalle sue esibizioni, elemosinando un pasto o un letto per la notte. Malgrado la reputazione da eccentrico che va creandosi, qualcuno lo nota nei locali malfamati dove si esibisce e cominciano a chiamarlo "L'Italianò".                                                              Nel 1959 però torna a Livorno dove, qualche tempo dopo, lo raggiunge Reverberi, che è direttore artistico alla Ricordi, la prima casa discografica italiana che scommette sui cantautori nostrani. Il musicista genovese lo convince a lavorare per lui, lo porta a Milano e lo ospita nella sua casa insieme a Gino Paoli e Luigi Tenco. In questa piccola ma stimolante boheme milanese, tra il 1960 e il '61 arrivano per Ciampi le prime incisioni. Nel 1963, malgrado lo scarso impegno, esce il suo primo LP "Piero Litaliano” che però passa quasi inosservato. Lascia Milano e torna a Livorno. Da qui, qualche tempo dopo, si sposta a Roma per la direzione artistica della Ariel,  una piccola etichetta discografica. Ciampi  abbandona il soprannome "Litaliano" e comincia a scrivere e cantare con il proprio nome. Si tratta di canzonette in piena regola, facili e più orecchiabili, che però non riscuotono successo.                                                                                                           
Gli va un pò meglio come autore: scrive per Gigliola Cinquetti "Ho bisogno di vederti", che arriva quarta a Sanremo nel 1965.  Nel frattempo, durante tutti i primi anni ‘60, non la smette mai, tra un lavoro e l'altro, di vagabondare senza meta: Roma, Stoccolma, Barcellona, Tokio, Dublino, Londra, parecchie sono le sue mete ma l’approdo finale  resta sempre Livorno. Nella sua vita sregolata compaiono due figure femminili  importanti: prima la moglie Moira, irlandese, che però poco tempo dopo avergli dato un figlio fugge negli Stati Uniti. Dopo qualche tempo si lega ad una donna romana, Gabriella, che lo rende padre per la seconda volta ma che  a sua volta ben presto si arrende e fugge di fronte al suo uso smodato di alcool ed al suo carattere irascibile che è causa di accese discussioni private e di situazioni  imbarazzanti in pubblico. Sul dolore provocato da questi abbandoni ascoltiamo il brano “Tu no”.      



Dopo la parentesi livornese, Piero torna a Roma con qualche speranza professionale. Grazie all’amico Gino Paoli riesce ad ottenere dalla RCA un contratto ed un ottimo anticipo in denaro che lui però va immediatamente a scolarsi, non producendo un solo pezzo e facendo ben presto rescindere il contratto.    Nel 1970 conosce Gianni Marchetti che rimarrà suo amico e collaboratore fino all’ultimo.Tra il 1973 e il 1974 qualcosa sembra smuoversi ma ancora una volta, non si sa quanto incidentalmente, Ciampi perde il treno della popolarità. Nel 1973 Carmen Villani canta a Canzonissima una sua canzone, "Bambino mio" con discreto successo e nello stesso anno un altro brano, "Io e te, Maria", viene inciso da Nicola di Bari. Nel 1974, impressionata dalla poetica di Ciampi, Ornella Vanoni contatta Gianni Marchetti e gli chiede di produrle un album intero con testi delll’artista livornese. Marchetti si precipita  a Livorno ma non trova Piero. Quando questi ricompare, il progetto dell'album per la Vanoni è ormai sfumato.                                         Per sopravvivere va a cantare in salette cosiddette "d'élite" da cui esige cachet molto alti e dove attacca regolarmente briga con qualcuno e insulta pesantemente il pubblico. Un’esistenza travagliata, segnata dall’alcool e dalla scelta di non adattarsi a certi conformismi, che si conclude il 19 gennaio 1980, quando a 46 anni Piero Ciampi muore ucciso da un cancro alla gola.                                                                                             
Il mondo poetico di Ciampi è un mondo di canzoni molto belle e spesso irridenti amalgamate da un pensiero politico-esistenziale marcatamente anticonformista e libertario. Canta con voce roca e sporca l'amore confuso tra la morte e il mal di vivere, evocando una serie di immagini dolcissime che alterna ad altre feroci e violente. Ciampi è essenzialmente un bohemien, un artista che resta ancorato, suonando e cantando, all'alcol, alla precarietà e alla miseria, nel corso di una vita breve, senza compromessi discografici e artistici, sregolata da ogni canone civilizzato. Un poeta-cantante che con i suoi testi e con una parabola esistenziale senza dubbio “spericolata” - come direbbe Vasco Rossi - ma coerente con i suoi principi ideologici ed artistici, ha preso di mira il falso benessere economico di quegli anni ed il facile conformismo sociale da esso derivante.

La discografia di Ciampi comprende dieci 45 giri fino al 1963 e poi gli  LP Piero Litaliano dello stesso anno, Piero Ciampi del 1971, Io e te abbiamo perso la bussola  del 1973, Andare, camminare, lavorare e altri discorsi  e Piero Ciampi dentro e fuori  del 1975 e le raccolte uscite postume Le carte in regola del 1981 e L'album di Piero Ciampi un doppio del 1990. 


http://www.youtube.com/watch?v=9cfgyLH4T_4


Danilo Sidari - 2008

PRIMAVERA

Certo è una bella sfida
quando vien giorno
l'ostentar siffatta noncuranza
se il canto tuo colmo di vita
entra nella mia casa,
tortora del mattino.
Ora che ad ogni mio fiato,
ora che ad ogni tuo fugace frullo
prepotente bussa l'alchimia dei sensi
alla porta del mio sangue antico


Danilo Sidari - 2010

Vinicio Capossela _ con una rosa _



....in memoria di Silvana Mangano!!

UN RAGAZZO

Puoi venire di notte, se credi,
O apparirmi improvviso
Alla luce del sole.
Quei tuoi riccioli d’oro,
Quel sorriso che intriga.
Ma sia l’ora che sia, tu ragazzo,
vieni e traccia per me
col colore del sogno
i confini di questa follia.
Fammi strada, scendendo,
dove il baratro è tenebra fitta.
La tua torcia d’Amore sia vivida luce
Mentre brancolo orbo cercando me stesso.
E il tuo passo deciso, al ritorno,
mi conduca sicuro alla vetta.     

Danilo Sidari - 2010

Saturday, November 13, 2010

Sandwich man - P. Conte

HARRIS STREET


No mamma, no non l’ho mica fatto apposta! Lo so sai, cosa credi? Sono ubriaco e non sto quasi più in piedi. Non rimproverarmi, mamma, e non chiedermi di non farlo più perché non posso garantirtelo.
Sto male, sono molto stanco, mi gira la testa ed Harris Street sembra non finire mai. Mi sembrano ore ormai che barcollo da una parte all’altra del marciapiede in una linea che il mio cervello mi suggerisce retta ma che retta non è.
Faccio anche degli sforzi sai, dei tentativi, ma proprio non riesco a mantenere un’andatura da sobrio: troppo rhum, mamma! E non voglio neanche pensare alla possibilità che passi una pattuglia della polizia: magari mi tengono una notte in guardina, tanto per farmi smaltire la ciucca senza pericolo.
Ero uscito per distrarmi un po’, ché non reggevo più la depressione che mi attanaglia da giorni...passasse almeno un taxi! Ma alle tre del mattino, di sabato. E poi magari, se il conducente capisce che ho bevuto, non mi carica neanche!
Sono andato a mangiare due spaghetti allo scoglio da Pipino: lui, che non dorme in piedi e ha visto che ero un po’ giù, mi ha suggerito di andare a fare quattro salti all’Ocean Club, che l’hanno ristrutturato e adesso suonano musica cubana.
Così su due piedi mi è sembrata una buona idea: ho pensato che potevo bere un mojito o due, fare due balli e magari, se girava bene, conoscere una ragazza abbastanza in gamba da fare scomparire almeno per un po’ i fantasmi che mi frullano per la mente.
Sono lì appoggiato al banco che sorseggio il mio drink quando mi sento toccare la spalla: era Ginone, un ex collega, in compagnia di due ragazze. Offrono un giro e Ginone mi dice in italiano, per non farsi capire, che sta tirando alla moretta e se mi va di intrattenere l’altra così lui ha più spazio. Tu sai com’è, mamma, la solita storia, no?
La porto a ballare e tra un passo e un’altro di mambo, mi sembra che l’angoscia si affievolisca. Balliamo una mezz’oretta e poi, visto che Ginone e la tipa non si vedono più, la invito a bere. Ci sediamo ad un tavolino nel dehor e iniziamo il gioco. Lei è scaltra, oltre che carina, e mi da spazio, se ne prende, giostra e mi lascia giostrare, si lascia corteggiare e corteggia. Chiamo un’altro giro, mamma, che ci stava bene a quel punto e poi, sai com’è, le gran parole seccano la gola...e il testosterone anche.
Ma era dolce la tresca, s’intesseva bene, sarà stato anche l’alcool,  ed ai primi fugaci, rapidi contatti di mano ha fatto seguito un leggero sfregamento di labbra.
Prima di invitarla, mi sono messo a pensare alle condizioni in cui avevo lasciato l’appartamento dove vivo e ricordo di aver sorriso: avevo passato il pomeriggio a riordinare e fare pulizia, mamma, vedi come sono giudizioso.
Insomma ho saltato il fosso e l’ho invitata per un caffè italiano da me e lei, semplice, fresca come un sorso d’acqua, ha accettato.
Le ho chiesto di chiamare un taxi, ché io non uso il cellulare, e mi sono alzato per andare a pagare il conto.
Ritorno in un attimo e aspetto in piedi che lei riponga nella borsetta le sue cose quando dal flusso dei passeggiatori del Circular Quay si stacca una figura che conosco bene, mi si avvicina e senza tanti gira di parole mi apostrofa di una sonora botta di bastardo e rigiratasi sui tacchi si allontana sculettando per raggiungere l’amica che l’aspetta.
Ma si, era lei, il fantasma della mia mente. Cristo, mamma, quando dicevi che in amore chi disprezza compra, come avevi ragione! Dieci giorni fa mi ha mandato a quel paese dicendomi chiaro e tondo di lasciarla stare e di non cercarla più. Ed ora cosa significava sta scenata?
Le sono corso dietro, ché mamma, si, lo ammetto, è lei che voglio! L’ho chiamata per nome e finalmente sono riuscito a raggiungerla, a prenderle il braccio cercando di trattenerla. Lei si è voltata e mi ha mollato un ceffone da lasciare il segno delle cinque dita sulla guancia.
Sono rimasto lì come un fesso mentre lei si allontanava a braccetto della sua amica.
Ma si, penso, vai vai: e chi pensi di essere? Ma intanto due bei lucciconi mi sono scivolati sulle guance.
Sono ritornato sui miei passi con il morale sotto i tacchi! L’altra, ovviamente, era scomparsa.
E allora tutto il male, tutto quel dolore sordo è tornato a galla e non ho trovato di meglio che riappoggiarmi al banco e ordinarne uno, e un’altro e ancora e ancora.
Cristo se mi gira la testa, magari giro l’angolo e vomito! E laggiù c’è un’auto bianca che si avvicina, una pattuglia della polizia, ci scommetto: la sagoma che si intravede sul tetto sono le luci blu, anche se adesso sono spente.
L’auto mi raggiunge, rallenta ed accosta al marciapiede. Sono fottuto, penso, con un misto di ironia ed amarezza. Tento un’improbabile indifferenza continuando a camminare barcollando, ma l’auto si arresta proprio alla mia altezza. Lo sportello posteriore si apre.
Beh...questa poi!
La donna di prima, quella del mambo, scende dal taxi, ché è un taxi mà, non una macchina della polizia, mi prende per il braccio e reggendomi mi fa:
- Sali! Andiamo a prendere stò caffè a casa tua, ché ne hai veramente bisogno!

Danilo Sidari

Chi Siamo Noi? - Paolo Conte


Voglio ringraziare coloro che con i loro commenti mi incoraggiano a continuare e postare questa canzone di Conte, mi sembra il modo migliore per farlo. Grazie.

Wednesday, November 10, 2010

VOGHERA

1
Mi domando e dico: ma certa gente non sa proprio a chi andare a rompere le balle?
Adesso giudicate voi: ero su al Bar della Posta che mi facevo un bianco corretto Campari, quando entra quel cretinetto, avrà si e no diciotto anni, quel Massimino Cantagallo, il consueto fare da bullo di paese, ché in un paese viviamo, mi si avvicina e quando è a un passo da me mi da una pacca sulle spalle che mi fa rovesciare mezzo aperitivo sul bancone del bar. E già lì ha cominciato a fumarmi la cervice, ma sai com’è, ci si trattiene, si pensa che sono giovani, pieni di entusiasmo, si credono forti, invincibili e molto furbi: insomma ho lasciato perdere. Ma lui, non contento del danno già fatto, dopo aver ordinato una birra, si volta nella mia direzione e senza usare la minima discrezione, anzi alzando il tono della voce quasi a far si che tutti potessero sentire, mi dice:
- Voghera, non riesco a trovare la polvere per i furgari quest’anno. Tu che ne hai sempre, e non dire di no perché lo so che ce l’hai, vendimene qualche chilo di quella nera, buona, che in paese ce l’hai solo tu.
Belin, c’è un limite a tutto! Alla giovane età, all’entusiasmo, alla presunta invincibilità, alla spacconeria: mi sono girato e gli ho mollato un ceffone in faccia di quelli che lasciano il segno delle dita. Poi ho vuotato il bicchiere con calma, per dargli il tempo di un’eventuale reazione e mentre lui si strofinava incredulo la guancia guardandomi esterefatto, ho pagato e sono uscito.
Sarà anche che sono giovani, non lo metto in dubbio, sarà che ci hanno il sangue caldo, ma perché non corrono dietro a qualche gonnella invece di andare in giro a fare i gradassi? Adesso dimmi te cosa gli andava a girare nel cervelletto di venirsene a fare un’uscita così? Al bar poi!
Intendiamoci: io la polvere ce l’ho, in paese chi fa i furgari lo sa! Una volta all’anno, alla fine di gennaio, carico sul sedile posteriore della Seicento una damigiana da cinquanta chili di olio nuovo, di quello buono e all’imbrunire salgo su per la statale tutta curve fino al cantiere dell’autostrada in costruzione. Lo scambio è sempre lo stesso: mezzo quintale di succo d’olive profumato contro cinquanta chili di polvere pirica di quella buona, perché quella per caricare le cartucce del “12” che si trova in commercio non è così potente, sarà al massimo al settanta per cento.
A quell’artificiere di Bergamo, sempre lo stesso, non sembra vero di portarsi a casa qualche bottiglione di olio veramente extravergine, puro, fatto con le nostre olive e a me diciamo che va bene così perchè mi ci mantengo questa passione che ho e la nomina che di conseguenza mi sono fatto: i furgari più belli per la festa di San Benedetto, sono sempre i miei.
Ora siccome l’olio mi costa fatica, su e giù per le fasce a magagliare, concimare, brundigliare le piante e poi, quando sono cariche, bacchiare e raccogliere e infine portare le olive al frantoio da Caficio, allora una parte della polvere me la vendo per coprirci il mancato guadagno che farei con la vendita dell’olio.
Senza ostentare troppo, si capisce, a pochi amici fidati, perché sebbene la Benemerita, per amore della tradizione storica, chiuda un occhio sul fatto che usiamo  polvere da  sparo, non è che si può andare in giro con l’altoparlante, come quei tanardi della dicci o del picci sotto le elezioni, a far la pubblicità.
Poi si sa, in un paese piccolo le voci corrono ed ecco come succede che certe informazioni, alla lunga, possono arrivare anche alle orecchie di certa gente.
Ma quel Cantagallo, con la sua aria da prepotente, stavolta l’ho messo a posto io.
Anche lì, vedi, fanno tante parole e dicono che con certa gente è meglio non averci a che fare, che sono mezzi malavitosi, che ci hanno la famiglia meridionale dietro le spalle: intanto si tiene lo schiaffone che si è preso e poi...poi si vedrà.

2
E’ entrata di nuovo nel pollaio quella bastarda, ed è la  terza volta, e ha lasciato in terra cinque pennuti: quattro galline ovaiole e quel bel galletto, avrà avuto un chilo abbondante di carne, che Vinzé U Capu, dopo tante insistenze, mi aveva venduto a peso d’oro.
Ma stavolta la faccio finita: domani al crepuscolo salgo su con la doppietta e gli tiro una paio di botte coi pallini dell’otto e poi con la pelle mi ci faccio una borsetta per la fiasca della grappa che mi porto quando vado al cinghiale.
E’ una bella volpe, il pelo rossiccio, una coda che sarà lunga mezzo metro. L’ho vista di sfuggita una sera di fine settembre, al tramonto, che ero salito a bagnare i carciofi nuovi. Si stava avvicinando al pollaio quando un refolo di vento le ha portato il mio odore. Si è bloccata all’improvviso, ha alzato il muso per avere conferma dall’olfatto della mia intrusione ed avutala, si è voltata di scatto ed ha iniziato a correre, il pelo ondeggiante, saltando giù dalle fasce seguita a breve distanza da due batuffoli dello stesso colore a cui stava insegnando il mestiere di vivere.
Arrotolo una sigaretta di trinciato e l’accendo, tiro il tubo di gomma fino ai filari di cavolfiore ed apro l’acqua e poi mi adopero a ripulire il pollaio. Scavo infine una buca profonda e seppelisco le carcasse degli animali. Che spreco: non si può neanche mangiarle queste bestie, perché i morsi volpini potrebbero aver avvelenato la carne con  la rabbia.
I cavolfiori sono bene innaffiati e passo ora ai carciofi nuovi, appena piantati. Intanto cibo i conigli con l’erba che avevo falciato stamattina e raccolgo qualche erba commestibile: un po’ le passo in padella con l’aglio e il resto le do alla zia Filomena,  ché magari se è di luna buona, domani si mette lì e ci prepara due ravioli.
Quando anche i carciofi hanno ricevuto la loro abbondante razione d’acqua, salgo fino alla vasca cilindrica di cemento, chiudo il rubinetto e scendo nuovamente ad assicurarmi che il pollaio e la conigliera siano ben chiusi.
Prendo il cavagno con le verdure e mi avvio per il viottolo che mi porterà alla strada consortile dove ho posteggiato la macchina.
Davanti ai miei occhi i soliti punti di riferimento: i quattro scalini di ardesia cotta dal sole, la vecchia voliera del nonno, ormai vuota, il fico su cui Luisa, mia sorella, si arrampicava da piccola...
Provo una sensazione strana adesso, contrastante, quando penso a mia sorella: intendiamoci io le voglio bene, è molto più piccola di me, ha solo ventidue anni e l’ho sempre considerata  alla stregua della mia principessina da proteggere. Ma ultimamente quella donna ha preso un brutto giro, pericoloso e  ci sta facendo perdere la faccia di fronte a tutto il paese.
E’ andata che…è andata che mio padre bisognerebbe…bisognerebbe…! Insomma lei da più di un anno si vedeva, di nascosto ben inteso, con quel Gianni Ferrari, ma si il Castelin, gran lavoratore, niente da dire, e anche un bel ragazzo, ma forse proprio per questo uno a cui le sottane gli danzano attorno con troppa allegria. Però a mia sorella andava bene così e quando in un paio di occasioni mi ero permesso di sollevare il discorso e fare qualche obiezione, la sua reazione mi aveva ben presto convinto a lasciar perdere.
Senonché una sera, verso la fine di ottobre, mio padre rientra per cena con qualche gotto di troppo, si siede a tavola e si fa servire il minestrone che lei aveva cucinato. Cucinava lei e veramente, per esser giusti, bisogna dire che in casa faceva tutto lei, perché la mamma, poverina, purtroppo sono già sette anni che ha stirato il gambino.
Comunque il vecchio inizia a sorbire rumorosamente la pietanza calda e poi, forse pungolato da qualche voce udita al bar, attacca una tiritera interminabile sui facili costumi delle ragazze moderne e insomma, sembrava un avvoltoio che con lenti giri concentrici stesse scendendo sulla preda. Quando finalmente, dopo altri due o tre bicchieri di nostralino ha raggiunto l’obiettivo, sua figlia, lei aveva già chinato il capo a terra e non mangiava più.
Luisa aveva quindici anni quando la mamma ci lasciò, un brutto male, povera donna, ha smesso di soffrire, insomma Luisa è cresciuta per strada. Io al lavoro, il vecchio qualche ora in campagna, nel nostro, e il pomeriggio a giocare a tressette al bar.
La zia Filomena, la sorella di mia madre, ha la sua età e faceva quel che poteva! Insomma la ragazza è maturata in fretta e son venuto a sapere, purtroppo tardi, che rispetto alle sue coetanee ha fatto, come dire, qualche esperienza in più.
Ma di Castelin s’era innamorata e sembrava essersi calmata.
Infatti ha provato, con la voce rotta dalla rabbia e dall’emozione, a fare un discorso serio. Vane però sono state le sue spiegazioni ed inutile è stato assicurare che lei e Gianni si volevano bene, che lui è il migliore potatore di ulivi della zona e quindi il lavoro non gli manca mai così come vana è risultata l’assicurazione che lei dava al vecchio sulle intenzioni serie del giovanotto.
È verità: non c’è più sordo di chi non vuol sentire! Se poi alla testardaggine unisci una percentuale abbondante di alcool nelle vene, il misero risultato è garantito quasi sicuramente. Infatti lui, alzando ben bene il tono della voce, le ingiunse di non vedere più quell’uomo e poi tronfio della sua paterna autorità, apparentemente ristabilita, si alzò per andarsi a coricare.
Ma aveva fatto male i conti col caratterino della figlia, temprato dalla dolorosa dipartita della mamma, avvenuta quando lei era ancora adolescente e dai conseguenti fatti che dicevo. Per farla breve lei gli disse che ormai era maggiorenne e che quindi non avrebbe preso ordini da lui e avrebbe frequentato chi gli pareva.
Con lo scarso equilibrio che gli rimaneva, il vecchio le si avvicinò come a voler meglio comprendere quanto aveva appena udito ma quando fu a portata di braccio le mollò una sberla così forte che la mandò a sedere col culo per terra.
Non più tardi di tre o quattro giorni dopo, una sera rientro e trovo mio padre al buio, seduto al tavolo, che sibilava frasi sconnesse tenendo in mano un foglio di quaderno sul quale mia sorella aveva scritto:
- Non mi hai mai punito, quando forse avresti avuto motivo di farlo e stavolta che faccio sul serio, mi metti le mani addosso? Non me lo meritavo. E poi sono stufa di farvi la serva! Me ne vado e non venite a cercarmi perché tanto non torno. Luisa.
La sera stessa ho preso il Castelin per la gola e l’ho attaccato ad un muro chiedendogli spiegazioni. Mi ha giurato che non la vedeva da tre giorni e che l’ultima volta lei le aveva chiesto con tono deciso che intenzioni avesse: insomma voleva fare le cose seriamente e sposarla o no?
Lui si era rifiutato di prendere impegni così, su due piedi, rispondendole che a  ventiquattro anni era forse un po’ presto per pensare a mettere su famiglia. Per tutta risposta si era sentito dare del pagliaccio ed era rimasto lì a bocca aperta, senza saper cosa dire mentre lei si allontanava a lunghi passi.
L’ho lasciato lì intimidito e sono tornato verso casa furioso con l’intenzione di dire a mio padre il fatto suo. Ho spalancato con vigore la porta e le braccia mi sono cadute lungo i fianchi: il vecchio era seduto sulla sua vecchia poltrona e tenendo il foglio di quaderno con una mano, si passava l’altra sugli occhi ad asciugare le lacrime che copiose gli scendevano sul viso.
Dopo qualche tempo è cominciata a girare la voce che l’avevano vista con una gonna corta e i tacchi a spillo mentre passeggiava di sera di fronte al Casinò: insomma dicono che si è messa a fare la bagascia!
Dicono che mantiene un pappone della città vecchia che va in giro con un macchinone lungo così e con un pericoloso rigonfio sotto la giacca. Insomma sono preoccupato: certe storie, il più delle volte finiscono male! Ma intanto quella non vuole tornare a casa e poi io come faccio? Vado là a prenderla con la doppietta caricata a palle da cinghiale? Mi devo informare, devo fare qualcosa!
Ecco sono arrivato sulla strada ma, Cristo, dov’è la macchina?
Mi guardo intorno sempre più sconcertato, faccio qualche passo in giù tanto per accertarmi che l’incombente oscurità non mi stia giocando qualche scherzo ma della mia Seicento non c’è proprio traccia. Comincio a bestemmiare inferocito ma ad un tratto una voce che ben conosco mi blocca l’ennesima invocazione blasfema in gola:
- Cerchi qualcosa, Voghera?
Massimino Cantagallo, attorniato da altri tre ceffi, mi sorride ironico e si avvicina minaccioso. Faccio solo in tempo ad appoggiare in terra il cavagno con le verdure mentre ripenso allo schiaffone che gli ho rifilato oggi. Poi, prima di cadere a terra e perdere i sensi, sento abbattersi su di me una gragnuola di colpi.


3
La macchina era duecento metri più a valle, sulla consortile, col muso piantato contro un ulivo e il paraurti piegato. Comunque le  Fiat sono macchine robuste e sono riuscito ad arrivare a casa, ma erano già le undici abbondanti, faceva un freddo cane e i brividi mi salivano su per la schiena come cavalloni di una mareggiata invernale.
Da un occhio quasi non ci vedo da quanto è gonfio ed ho una bella striscia bluastra sull’altra guancia. Il mal di testa va e viene e le gengive mi fanno ancora male ma i denti ci sono tutti. Quello che mi preoccupa è il male al costato e le tracce di sangue nella saliva che sputavo ieri. Oggi ancora non è successo ma se capita di nuovo vado subito all’ospedale a farmi fare i raggi.
Il vecchio non mi ha ancora visto! Ieri mi sono alzato presto, ho preso la macchina e me ne sono andato a Carmo Langan. Sono stato tutto il giorno nella baracca dei cacciatori, tanto in settimana non gira nessuno da quelle parti. Ho mangiato a fatica una scatoletta di tonno con un tozzo di pane e bevuto un lungo sorso da una fiaschetta di vino di quello buono, da imbottigliare. Poi mi sono appisolato ed ho sognato che facevo i furgari. Segavo il bambù ottenendo dei tubi chiusi ad una estremità dalla lamella legnosa. I tubi avevano un diametro di otto o nove centimetri e una lunghezza di trenta. Nella lamella legnosa facevo un buco del dodici con il sarchiello, lentamente, con precisione. Tagliavo poi un dischetto di amianto, al centro ci favevo un buco, sempre del dodici e lo incastravo al fondo della camera di scoppio. Avvolgevo poi esternamente quella estremità del tubo con della carta velina da garofani, che fissavo con un’elastico a fascia così che i buchi fossero sigillati e la polvere non potesse fuoriuscire e infine appoggiavo il cilindro sul tavolino con la parte vuota verso l’alto. Dopo, con la bilancia per pesare il fogliame ornamentale che il vecchio usa per fare i mazzi da un chilo di sprengeri, pesavo la polvere e la limatura. Usando un vecchio macinino per caffè elettrico, trituravo finemente la polvere pirica; poi miscelavo bene il tutto e infine, usando un cucchiaio, mettevo con attenzione il miscuglio nel tubo. Un po’ di impasto e tanti colpi dati con un tondino di ferro per compattarlo molto bene e avanti così fino a versare tutta la dose pesata. Quando la polvere era così ben pressata da non uscire più neanche capovolgendo la canna, allora facevo lo stoppazzo. Appallottolavo i fogli di vecchi numeri del Secolo XIX che Rosa la giornalaia mi aveva tenuto da parte ed usavo un battacchio di legno per schiacciare con molta forza la carta che doveva essere così ben pressata da assorbire il rinculo della polvere mista alla limatura quando questa, incadescente, sarebbe eruttata verso l’alto. Alla fine il furgaro era pronto ed io, nel sogno, pregustavo la botta di adrenalina che si prova quando indossando i guanti da lavoro di cuoio, un paio di braghe vecchie, la mimetica e il cappellaccio calato a proteggere il volto, lo si allunga verso qualcuno che con un rametto di ulivo incandescente gli da vita. Una vita breve, è vero, ma intensa: milioni di scintille colorate che si innalzano verso il cielo per una manciata di secondi, dodici, quindici, venti per quelli che durano di più, sprigionando una forza che due braccia use al lavoro fanno fatica a contenere. E poi lo scemare di questa forza, le urla ed i fischi di approvazione della gente ed infine il lancio del bambù vuoto nel falò allestito dagli abitanti del rione. 
Poi mi sono svegliato, era pomeriggio inoltrato e a fatica mi sono risollevato e sono tornato a casa, ho acceso la stufa e mi sono chiuso di nuovo in camera.
Stamatina mi sono alzato che avevo un buco allo stomaco: buon segno! Ho fatto il caffè e l’ho preso inghiottendo a fatica, ma con gusto, un paio di canestrelli. I dolori però mi tormentavano e siccome sapevo che c’era del laudano che era rimasto da quando il vecchio si era rotto il femore, ho deciso di prenderne una fialetta con l’acqua. Che botta, altro che sambuca!
Ho dormito fino a mezzogiorno e quando mi son ripreso mi sono fatto una tazza di the con altri due canestrelli. Non ho più sputato sangue e la cosa mi rincuora ma, belin, che male alle costole!
Me ne hanno date quante ne ho volute e hanno incluso gli interessi: non si stancavano mai, i bastardi! Ma col tempo aggiusto anche questa, non c’è problema. Lo faccio godere un po’, che si senta tronfio, che abbassi la guardia, poi lo colpisco. Solo che stavolta gli schiaffi non basteranno: lo aspetto una sera senza farmi vedere e gli tiro alle ginocchia coi pallini dell’otto, come alla volpe: lo faccio andare con un bastone per tutta la vita, il porco! Degli altri tre non me ne frega niente, sono rumenta. Basterà toccarne uno, il più tosto, e gli altri spariranno come d’incanto. E poi, dopo che avrò visto cosa c’è da aspettarsi a sparare ad un uomo, a vedere come reagisco di fronte alla sua espressione di supplica prima di essere colpito, andrò a prendere Luisa.
Faccio male a farmi venire certi pensieri: mi è venuto il fiatone dall’emozione e le costole mi fanno di nuovo male.
Comunque mi sento un po’ più in forze e mi sto annoiando: cosa posso fare senza uscire e diventare in un attimo, per via della faccia gonfia, la barzelletta del paese?
Potrei scendere in cantina e cominciare a riempire qualche furgaro: in fondo sono solo due rampe di scale! Le canne le ho già tagliate l’altra sera e ci ho fatto i buchi. Potrei iniziare a fare le dosi con la polvere e le limature che mi ha dato Rinaldo, il lattoniere. Ma si scendiamo, dai. Sai cosa? Mi prendo un’altro po’ di laudano ma meno di stamattina: non voglio mica buttarmi sul letto di nuovo. Magari mezza fialetta, tanto per calmare i dolori fino a stasera.
Cribbio, è amaro come il fiele, fammici mettere un po’ di zucchero. Ecco, ora va meglio! Mi siedo dieci minuti tanto da fargli fare effetto, poi vado giù.

*****
Ma cosa è successo? Mi sono addormentato di nuovo! Do un’occhiata al pendolo: sono quasi le cinque. Mi alzo e mi sciacquo la faccia nel lavandino di graniglia di marmo e poi decido di scendere.
Mi tiro dietro la porta dopo aver staccato dal chiodo appeso sopra l’interruttore la chiave del basso. La luce, mi son dimenticato la luce accesa: con quello che costa!
Eh no, allora è proprio sfortuna: piuttosto che niente ho anche lasciato le chiavi di casa dentro. Così mi tocca dormire in cantina, se non voglio che il vecchio mi veda! Ma si, più tardi gli do una voce che domani mattina, quando va in campagna, mi lasci le chiavi nella cassetta della posta appesa in fondo alle scale. Tanto una brandina giù ce l’ho portata perchè qualche volta ci porto Caterina, la materassaia, che ci ha due poppe che non mi stanno nelle mani, madonna il laudano che scherzi che fa!
Intanto attacco la seconda rampa, la più corta, che porta alla cantina. La vecchia chiave di metallo deve girare cinque o sei volte prima che la porta si apra e il consueto odore residuo di mosto fermentato misto a quello dello sprengeri mi colpisca le narici.
L’interrutore è a destra e accendo la lampadina: ecco le damigiane piene sul soppalco di legno e quelle vuote capovolte a scolare ed asciugarsi. Ai piedi della volta, le mensole con le piccole albanelle di pomodori secchi, di melanzane e di funghi sott’olio mentre al fondo, separata dalle altre, c’è quella grande delle acciughe, coperta da una piccola ruota di sughero zavorrata da una pietra rotonda di fiumara. Di fianco le due giare dell’olio coperte con una tela di iuta. Ovunque bottiglioni, pipette di gomma per riempirli e attrezzi per fare il vino. In un’angolo il torchio e sopra il vecchio armadio, la serpentina ramata dell’alambicco per distillare. Laggiù dietro una tenda sgualcita, ci sono il lavello e la branda; da questa parte invece, appoggiato al muro, il banco da lavoro, con la bilancia che dicevo, due paia di forbici da potatura annerite dall’uso, i guanti di gomma, la raffia per legare i mazzi di fogliame, un pacchetto di Nazionali e una scatola di cerini.
Sotto il banco di lavoro, riposta in una cassetta di legno che tengo chiusa con un lucchetto, c’è la polvere. Alzo a stento la cassetta e l’appoggio sul bancone, prendo la chiave del lucchetto e la apro: tredici pacchi di carta spessa e grezza, come quella  usata per i cartocci dei chiodi, che contengono due chili di materiale ognuno, sono lì davanti ai miei occhi.
Dunque ventiquattro chili li ho già venduti e con quelli mi ci pago le spese e mi metto qualche biglietto da mille in tasca; con i ventisei che mi sono rimasti, anche a caricare i furgari come si deve, ci faccio quindici o sedici sparocchetti. Ne ho da divertirmi per tutta la notte e posso fare il giro completo dei falò di tutti i rioni. Anzi in Piazza Cavour e dai Domenicani posso spararne anche due.
Tiro quindi fuori uno dei cartocci ed appoggio poi la cassetta con i rimanenti su una sedia impagliata che ho portato in cantina perchè si era sfondata.
Stendo sulla superficie di tavole grezze un largo foglio di carta da pacchi bella spessa ed apro l’involucro, lo porto sotto il naso ed aspiro profondamente: uhmmm, come pizzica le narici, è roba buona!
Controllo che l’ago della bilancia sia esattamente sullo zero e comincio a versare la polvere sul piatto fino a raggiungere i milletrecento grammi di peso.
In un’altro angolo del banco metto una bacinella smaltata e con un setaccio a rete fina, passo la limatura, che resti solo la più fine, quella che brucia meglio.
Ecco fatto, ora pesiamola! Centoventi grammi di limatura di ferro bastano e poi ne aggiungo altri cinquanta di quella d’alluminio che dà brillantezza. Ora devo macinare la polvere da sparo con il macinino ma prima voglio accendere la radio: sono le sei e a quest’ora c’è il giornale radio.
La radio a transistors dovrebbe funzionare con le batterie ma le pile costano tanto e durano poco. Così ci ho collegato un trasformatore da centoventicinque a dodici volts alimentato da un cavo a cui  ho collegato col nastro isolante una spina elettrica. Ho poi sostituito il portalampadina normale, che pende attaccato al filo proprio sopra il bancone, con uno che ha anche una presa elettrica doppia incorporata. È un impianto casareccio, fatto alla buona ma Bastianin l’elettricista mi ha detto come fare e mi ha assicurato che funziona. Accendo la radio e mi arrampico faticosamente sul bancone per collegare la spina del macinino alla fonte di elettricità. Salire sul bancone sarebbe niente, se non fosse per le botte che mi hanno dato e per la mezza fialetta che ho preso io per sopportare il dolore. Ed il ricordo!
Comunque salgo, collego il cavetto, lentamente ridiscendo, mi siedo e reprimo, visto quello che devo fare, la voglia di accendere una Nazionale. Riempio il macinino con quattro cucchiaiate di polvere da sparo, chiudo lo sportelletto e pigio il puls....

Epilogo
Dice che si è sentito prima un gran botto e che la porta della cantina è volata fuori sulla strada e sono scesi anche parecchi cornicioni. Per fortuna che in quel momento di lì non passava nessuno! Poi chi accorreva ha visto venir su dal sottoscala le fiamme e un fumo nero, spesso e irrespirabile. Non si riusciva ad avvicinarsi dal calore che si sprigionava e poi chi lo avrebbe fatto sapendo quello che Voghera teneva in cantina.
Augusto Barun è stato il primo che vinta la paura, ha realizzato che ormai dopo due o tre minuti di quell’inferno, se qualcos’altro doveva esplodere, a quel punto sarebbe già esploso. Così, dopo aver aperto al massimo il rubinetto della vasca dei garofani che ha nel magazzino lì di fronte, ha tirato la manica di gomma sulla strada ed ha cominciato a buttare acqua giù dalle scale che portano alla cantina.
Quando sono arrivati i pompieri da Sanremo, dallo scantinato usciva solo fumo e tutto il paese si era radunato nelle vicinanze.
Dice che dopo sono arrivati il magistrato di turno e il medico legale e alla fine Voghera l’hanno portato fuori su una barella coperto con un telo e che la sagoma  che si indovinava sotto quel misero sudario, non era più quella di un uomo, era accorciata: sembrava che i pompieri stessero portando via un bambino.

Danilo Sidari - 2005