Wednesday, November 10, 2010

VOGHERA

1
Mi domando e dico: ma certa gente non sa proprio a chi andare a rompere le balle?
Adesso giudicate voi: ero su al Bar della Posta che mi facevo un bianco corretto Campari, quando entra quel cretinetto, avrà si e no diciotto anni, quel Massimino Cantagallo, il consueto fare da bullo di paese, ché in un paese viviamo, mi si avvicina e quando è a un passo da me mi da una pacca sulle spalle che mi fa rovesciare mezzo aperitivo sul bancone del bar. E già lì ha cominciato a fumarmi la cervice, ma sai com’è, ci si trattiene, si pensa che sono giovani, pieni di entusiasmo, si credono forti, invincibili e molto furbi: insomma ho lasciato perdere. Ma lui, non contento del danno già fatto, dopo aver ordinato una birra, si volta nella mia direzione e senza usare la minima discrezione, anzi alzando il tono della voce quasi a far si che tutti potessero sentire, mi dice:
- Voghera, non riesco a trovare la polvere per i furgari quest’anno. Tu che ne hai sempre, e non dire di no perché lo so che ce l’hai, vendimene qualche chilo di quella nera, buona, che in paese ce l’hai solo tu.
Belin, c’è un limite a tutto! Alla giovane età, all’entusiasmo, alla presunta invincibilità, alla spacconeria: mi sono girato e gli ho mollato un ceffone in faccia di quelli che lasciano il segno delle dita. Poi ho vuotato il bicchiere con calma, per dargli il tempo di un’eventuale reazione e mentre lui si strofinava incredulo la guancia guardandomi esterefatto, ho pagato e sono uscito.
Sarà anche che sono giovani, non lo metto in dubbio, sarà che ci hanno il sangue caldo, ma perché non corrono dietro a qualche gonnella invece di andare in giro a fare i gradassi? Adesso dimmi te cosa gli andava a girare nel cervelletto di venirsene a fare un’uscita così? Al bar poi!
Intendiamoci: io la polvere ce l’ho, in paese chi fa i furgari lo sa! Una volta all’anno, alla fine di gennaio, carico sul sedile posteriore della Seicento una damigiana da cinquanta chili di olio nuovo, di quello buono e all’imbrunire salgo su per la statale tutta curve fino al cantiere dell’autostrada in costruzione. Lo scambio è sempre lo stesso: mezzo quintale di succo d’olive profumato contro cinquanta chili di polvere pirica di quella buona, perché quella per caricare le cartucce del “12” che si trova in commercio non è così potente, sarà al massimo al settanta per cento.
A quell’artificiere di Bergamo, sempre lo stesso, non sembra vero di portarsi a casa qualche bottiglione di olio veramente extravergine, puro, fatto con le nostre olive e a me diciamo che va bene così perchè mi ci mantengo questa passione che ho e la nomina che di conseguenza mi sono fatto: i furgari più belli per la festa di San Benedetto, sono sempre i miei.
Ora siccome l’olio mi costa fatica, su e giù per le fasce a magagliare, concimare, brundigliare le piante e poi, quando sono cariche, bacchiare e raccogliere e infine portare le olive al frantoio da Caficio, allora una parte della polvere me la vendo per coprirci il mancato guadagno che farei con la vendita dell’olio.
Senza ostentare troppo, si capisce, a pochi amici fidati, perché sebbene la Benemerita, per amore della tradizione storica, chiuda un occhio sul fatto che usiamo  polvere da  sparo, non è che si può andare in giro con l’altoparlante, come quei tanardi della dicci o del picci sotto le elezioni, a far la pubblicità.
Poi si sa, in un paese piccolo le voci corrono ed ecco come succede che certe informazioni, alla lunga, possono arrivare anche alle orecchie di certa gente.
Ma quel Cantagallo, con la sua aria da prepotente, stavolta l’ho messo a posto io.
Anche lì, vedi, fanno tante parole e dicono che con certa gente è meglio non averci a che fare, che sono mezzi malavitosi, che ci hanno la famiglia meridionale dietro le spalle: intanto si tiene lo schiaffone che si è preso e poi...poi si vedrà.

2
E’ entrata di nuovo nel pollaio quella bastarda, ed è la  terza volta, e ha lasciato in terra cinque pennuti: quattro galline ovaiole e quel bel galletto, avrà avuto un chilo abbondante di carne, che Vinzé U Capu, dopo tante insistenze, mi aveva venduto a peso d’oro.
Ma stavolta la faccio finita: domani al crepuscolo salgo su con la doppietta e gli tiro una paio di botte coi pallini dell’otto e poi con la pelle mi ci faccio una borsetta per la fiasca della grappa che mi porto quando vado al cinghiale.
E’ una bella volpe, il pelo rossiccio, una coda che sarà lunga mezzo metro. L’ho vista di sfuggita una sera di fine settembre, al tramonto, che ero salito a bagnare i carciofi nuovi. Si stava avvicinando al pollaio quando un refolo di vento le ha portato il mio odore. Si è bloccata all’improvviso, ha alzato il muso per avere conferma dall’olfatto della mia intrusione ed avutala, si è voltata di scatto ed ha iniziato a correre, il pelo ondeggiante, saltando giù dalle fasce seguita a breve distanza da due batuffoli dello stesso colore a cui stava insegnando il mestiere di vivere.
Arrotolo una sigaretta di trinciato e l’accendo, tiro il tubo di gomma fino ai filari di cavolfiore ed apro l’acqua e poi mi adopero a ripulire il pollaio. Scavo infine una buca profonda e seppelisco le carcasse degli animali. Che spreco: non si può neanche mangiarle queste bestie, perché i morsi volpini potrebbero aver avvelenato la carne con  la rabbia.
I cavolfiori sono bene innaffiati e passo ora ai carciofi nuovi, appena piantati. Intanto cibo i conigli con l’erba che avevo falciato stamattina e raccolgo qualche erba commestibile: un po’ le passo in padella con l’aglio e il resto le do alla zia Filomena,  ché magari se è di luna buona, domani si mette lì e ci prepara due ravioli.
Quando anche i carciofi hanno ricevuto la loro abbondante razione d’acqua, salgo fino alla vasca cilindrica di cemento, chiudo il rubinetto e scendo nuovamente ad assicurarmi che il pollaio e la conigliera siano ben chiusi.
Prendo il cavagno con le verdure e mi avvio per il viottolo che mi porterà alla strada consortile dove ho posteggiato la macchina.
Davanti ai miei occhi i soliti punti di riferimento: i quattro scalini di ardesia cotta dal sole, la vecchia voliera del nonno, ormai vuota, il fico su cui Luisa, mia sorella, si arrampicava da piccola...
Provo una sensazione strana adesso, contrastante, quando penso a mia sorella: intendiamoci io le voglio bene, è molto più piccola di me, ha solo ventidue anni e l’ho sempre considerata  alla stregua della mia principessina da proteggere. Ma ultimamente quella donna ha preso un brutto giro, pericoloso e  ci sta facendo perdere la faccia di fronte a tutto il paese.
E’ andata che…è andata che mio padre bisognerebbe…bisognerebbe…! Insomma lei da più di un anno si vedeva, di nascosto ben inteso, con quel Gianni Ferrari, ma si il Castelin, gran lavoratore, niente da dire, e anche un bel ragazzo, ma forse proprio per questo uno a cui le sottane gli danzano attorno con troppa allegria. Però a mia sorella andava bene così e quando in un paio di occasioni mi ero permesso di sollevare il discorso e fare qualche obiezione, la sua reazione mi aveva ben presto convinto a lasciar perdere.
Senonché una sera, verso la fine di ottobre, mio padre rientra per cena con qualche gotto di troppo, si siede a tavola e si fa servire il minestrone che lei aveva cucinato. Cucinava lei e veramente, per esser giusti, bisogna dire che in casa faceva tutto lei, perché la mamma, poverina, purtroppo sono già sette anni che ha stirato il gambino.
Comunque il vecchio inizia a sorbire rumorosamente la pietanza calda e poi, forse pungolato da qualche voce udita al bar, attacca una tiritera interminabile sui facili costumi delle ragazze moderne e insomma, sembrava un avvoltoio che con lenti giri concentrici stesse scendendo sulla preda. Quando finalmente, dopo altri due o tre bicchieri di nostralino ha raggiunto l’obiettivo, sua figlia, lei aveva già chinato il capo a terra e non mangiava più.
Luisa aveva quindici anni quando la mamma ci lasciò, un brutto male, povera donna, ha smesso di soffrire, insomma Luisa è cresciuta per strada. Io al lavoro, il vecchio qualche ora in campagna, nel nostro, e il pomeriggio a giocare a tressette al bar.
La zia Filomena, la sorella di mia madre, ha la sua età e faceva quel che poteva! Insomma la ragazza è maturata in fretta e son venuto a sapere, purtroppo tardi, che rispetto alle sue coetanee ha fatto, come dire, qualche esperienza in più.
Ma di Castelin s’era innamorata e sembrava essersi calmata.
Infatti ha provato, con la voce rotta dalla rabbia e dall’emozione, a fare un discorso serio. Vane però sono state le sue spiegazioni ed inutile è stato assicurare che lei e Gianni si volevano bene, che lui è il migliore potatore di ulivi della zona e quindi il lavoro non gli manca mai così come vana è risultata l’assicurazione che lei dava al vecchio sulle intenzioni serie del giovanotto.
È verità: non c’è più sordo di chi non vuol sentire! Se poi alla testardaggine unisci una percentuale abbondante di alcool nelle vene, il misero risultato è garantito quasi sicuramente. Infatti lui, alzando ben bene il tono della voce, le ingiunse di non vedere più quell’uomo e poi tronfio della sua paterna autorità, apparentemente ristabilita, si alzò per andarsi a coricare.
Ma aveva fatto male i conti col caratterino della figlia, temprato dalla dolorosa dipartita della mamma, avvenuta quando lei era ancora adolescente e dai conseguenti fatti che dicevo. Per farla breve lei gli disse che ormai era maggiorenne e che quindi non avrebbe preso ordini da lui e avrebbe frequentato chi gli pareva.
Con lo scarso equilibrio che gli rimaneva, il vecchio le si avvicinò come a voler meglio comprendere quanto aveva appena udito ma quando fu a portata di braccio le mollò una sberla così forte che la mandò a sedere col culo per terra.
Non più tardi di tre o quattro giorni dopo, una sera rientro e trovo mio padre al buio, seduto al tavolo, che sibilava frasi sconnesse tenendo in mano un foglio di quaderno sul quale mia sorella aveva scritto:
- Non mi hai mai punito, quando forse avresti avuto motivo di farlo e stavolta che faccio sul serio, mi metti le mani addosso? Non me lo meritavo. E poi sono stufa di farvi la serva! Me ne vado e non venite a cercarmi perché tanto non torno. Luisa.
La sera stessa ho preso il Castelin per la gola e l’ho attaccato ad un muro chiedendogli spiegazioni. Mi ha giurato che non la vedeva da tre giorni e che l’ultima volta lei le aveva chiesto con tono deciso che intenzioni avesse: insomma voleva fare le cose seriamente e sposarla o no?
Lui si era rifiutato di prendere impegni così, su due piedi, rispondendole che a  ventiquattro anni era forse un po’ presto per pensare a mettere su famiglia. Per tutta risposta si era sentito dare del pagliaccio ed era rimasto lì a bocca aperta, senza saper cosa dire mentre lei si allontanava a lunghi passi.
L’ho lasciato lì intimidito e sono tornato verso casa furioso con l’intenzione di dire a mio padre il fatto suo. Ho spalancato con vigore la porta e le braccia mi sono cadute lungo i fianchi: il vecchio era seduto sulla sua vecchia poltrona e tenendo il foglio di quaderno con una mano, si passava l’altra sugli occhi ad asciugare le lacrime che copiose gli scendevano sul viso.
Dopo qualche tempo è cominciata a girare la voce che l’avevano vista con una gonna corta e i tacchi a spillo mentre passeggiava di sera di fronte al Casinò: insomma dicono che si è messa a fare la bagascia!
Dicono che mantiene un pappone della città vecchia che va in giro con un macchinone lungo così e con un pericoloso rigonfio sotto la giacca. Insomma sono preoccupato: certe storie, il più delle volte finiscono male! Ma intanto quella non vuole tornare a casa e poi io come faccio? Vado là a prenderla con la doppietta caricata a palle da cinghiale? Mi devo informare, devo fare qualcosa!
Ecco sono arrivato sulla strada ma, Cristo, dov’è la macchina?
Mi guardo intorno sempre più sconcertato, faccio qualche passo in giù tanto per accertarmi che l’incombente oscurità non mi stia giocando qualche scherzo ma della mia Seicento non c’è proprio traccia. Comincio a bestemmiare inferocito ma ad un tratto una voce che ben conosco mi blocca l’ennesima invocazione blasfema in gola:
- Cerchi qualcosa, Voghera?
Massimino Cantagallo, attorniato da altri tre ceffi, mi sorride ironico e si avvicina minaccioso. Faccio solo in tempo ad appoggiare in terra il cavagno con le verdure mentre ripenso allo schiaffone che gli ho rifilato oggi. Poi, prima di cadere a terra e perdere i sensi, sento abbattersi su di me una gragnuola di colpi.


3
La macchina era duecento metri più a valle, sulla consortile, col muso piantato contro un ulivo e il paraurti piegato. Comunque le  Fiat sono macchine robuste e sono riuscito ad arrivare a casa, ma erano già le undici abbondanti, faceva un freddo cane e i brividi mi salivano su per la schiena come cavalloni di una mareggiata invernale.
Da un occhio quasi non ci vedo da quanto è gonfio ed ho una bella striscia bluastra sull’altra guancia. Il mal di testa va e viene e le gengive mi fanno ancora male ma i denti ci sono tutti. Quello che mi preoccupa è il male al costato e le tracce di sangue nella saliva che sputavo ieri. Oggi ancora non è successo ma se capita di nuovo vado subito all’ospedale a farmi fare i raggi.
Il vecchio non mi ha ancora visto! Ieri mi sono alzato presto, ho preso la macchina e me ne sono andato a Carmo Langan. Sono stato tutto il giorno nella baracca dei cacciatori, tanto in settimana non gira nessuno da quelle parti. Ho mangiato a fatica una scatoletta di tonno con un tozzo di pane e bevuto un lungo sorso da una fiaschetta di vino di quello buono, da imbottigliare. Poi mi sono appisolato ed ho sognato che facevo i furgari. Segavo il bambù ottenendo dei tubi chiusi ad una estremità dalla lamella legnosa. I tubi avevano un diametro di otto o nove centimetri e una lunghezza di trenta. Nella lamella legnosa facevo un buco del dodici con il sarchiello, lentamente, con precisione. Tagliavo poi un dischetto di amianto, al centro ci favevo un buco, sempre del dodici e lo incastravo al fondo della camera di scoppio. Avvolgevo poi esternamente quella estremità del tubo con della carta velina da garofani, che fissavo con un’elastico a fascia così che i buchi fossero sigillati e la polvere non potesse fuoriuscire e infine appoggiavo il cilindro sul tavolino con la parte vuota verso l’alto. Dopo, con la bilancia per pesare il fogliame ornamentale che il vecchio usa per fare i mazzi da un chilo di sprengeri, pesavo la polvere e la limatura. Usando un vecchio macinino per caffè elettrico, trituravo finemente la polvere pirica; poi miscelavo bene il tutto e infine, usando un cucchiaio, mettevo con attenzione il miscuglio nel tubo. Un po’ di impasto e tanti colpi dati con un tondino di ferro per compattarlo molto bene e avanti così fino a versare tutta la dose pesata. Quando la polvere era così ben pressata da non uscire più neanche capovolgendo la canna, allora facevo lo stoppazzo. Appallottolavo i fogli di vecchi numeri del Secolo XIX che Rosa la giornalaia mi aveva tenuto da parte ed usavo un battacchio di legno per schiacciare con molta forza la carta che doveva essere così ben pressata da assorbire il rinculo della polvere mista alla limatura quando questa, incadescente, sarebbe eruttata verso l’alto. Alla fine il furgaro era pronto ed io, nel sogno, pregustavo la botta di adrenalina che si prova quando indossando i guanti da lavoro di cuoio, un paio di braghe vecchie, la mimetica e il cappellaccio calato a proteggere il volto, lo si allunga verso qualcuno che con un rametto di ulivo incandescente gli da vita. Una vita breve, è vero, ma intensa: milioni di scintille colorate che si innalzano verso il cielo per una manciata di secondi, dodici, quindici, venti per quelli che durano di più, sprigionando una forza che due braccia use al lavoro fanno fatica a contenere. E poi lo scemare di questa forza, le urla ed i fischi di approvazione della gente ed infine il lancio del bambù vuoto nel falò allestito dagli abitanti del rione. 
Poi mi sono svegliato, era pomeriggio inoltrato e a fatica mi sono risollevato e sono tornato a casa, ho acceso la stufa e mi sono chiuso di nuovo in camera.
Stamatina mi sono alzato che avevo un buco allo stomaco: buon segno! Ho fatto il caffè e l’ho preso inghiottendo a fatica, ma con gusto, un paio di canestrelli. I dolori però mi tormentavano e siccome sapevo che c’era del laudano che era rimasto da quando il vecchio si era rotto il femore, ho deciso di prenderne una fialetta con l’acqua. Che botta, altro che sambuca!
Ho dormito fino a mezzogiorno e quando mi son ripreso mi sono fatto una tazza di the con altri due canestrelli. Non ho più sputato sangue e la cosa mi rincuora ma, belin, che male alle costole!
Me ne hanno date quante ne ho volute e hanno incluso gli interessi: non si stancavano mai, i bastardi! Ma col tempo aggiusto anche questa, non c’è problema. Lo faccio godere un po’, che si senta tronfio, che abbassi la guardia, poi lo colpisco. Solo che stavolta gli schiaffi non basteranno: lo aspetto una sera senza farmi vedere e gli tiro alle ginocchia coi pallini dell’otto, come alla volpe: lo faccio andare con un bastone per tutta la vita, il porco! Degli altri tre non me ne frega niente, sono rumenta. Basterà toccarne uno, il più tosto, e gli altri spariranno come d’incanto. E poi, dopo che avrò visto cosa c’è da aspettarsi a sparare ad un uomo, a vedere come reagisco di fronte alla sua espressione di supplica prima di essere colpito, andrò a prendere Luisa.
Faccio male a farmi venire certi pensieri: mi è venuto il fiatone dall’emozione e le costole mi fanno di nuovo male.
Comunque mi sento un po’ più in forze e mi sto annoiando: cosa posso fare senza uscire e diventare in un attimo, per via della faccia gonfia, la barzelletta del paese?
Potrei scendere in cantina e cominciare a riempire qualche furgaro: in fondo sono solo due rampe di scale! Le canne le ho già tagliate l’altra sera e ci ho fatto i buchi. Potrei iniziare a fare le dosi con la polvere e le limature che mi ha dato Rinaldo, il lattoniere. Ma si scendiamo, dai. Sai cosa? Mi prendo un’altro po’ di laudano ma meno di stamattina: non voglio mica buttarmi sul letto di nuovo. Magari mezza fialetta, tanto per calmare i dolori fino a stasera.
Cribbio, è amaro come il fiele, fammici mettere un po’ di zucchero. Ecco, ora va meglio! Mi siedo dieci minuti tanto da fargli fare effetto, poi vado giù.

*****
Ma cosa è successo? Mi sono addormentato di nuovo! Do un’occhiata al pendolo: sono quasi le cinque. Mi alzo e mi sciacquo la faccia nel lavandino di graniglia di marmo e poi decido di scendere.
Mi tiro dietro la porta dopo aver staccato dal chiodo appeso sopra l’interruttore la chiave del basso. La luce, mi son dimenticato la luce accesa: con quello che costa!
Eh no, allora è proprio sfortuna: piuttosto che niente ho anche lasciato le chiavi di casa dentro. Così mi tocca dormire in cantina, se non voglio che il vecchio mi veda! Ma si, più tardi gli do una voce che domani mattina, quando va in campagna, mi lasci le chiavi nella cassetta della posta appesa in fondo alle scale. Tanto una brandina giù ce l’ho portata perchè qualche volta ci porto Caterina, la materassaia, che ci ha due poppe che non mi stanno nelle mani, madonna il laudano che scherzi che fa!
Intanto attacco la seconda rampa, la più corta, che porta alla cantina. La vecchia chiave di metallo deve girare cinque o sei volte prima che la porta si apra e il consueto odore residuo di mosto fermentato misto a quello dello sprengeri mi colpisca le narici.
L’interrutore è a destra e accendo la lampadina: ecco le damigiane piene sul soppalco di legno e quelle vuote capovolte a scolare ed asciugarsi. Ai piedi della volta, le mensole con le piccole albanelle di pomodori secchi, di melanzane e di funghi sott’olio mentre al fondo, separata dalle altre, c’è quella grande delle acciughe, coperta da una piccola ruota di sughero zavorrata da una pietra rotonda di fiumara. Di fianco le due giare dell’olio coperte con una tela di iuta. Ovunque bottiglioni, pipette di gomma per riempirli e attrezzi per fare il vino. In un’angolo il torchio e sopra il vecchio armadio, la serpentina ramata dell’alambicco per distillare. Laggiù dietro una tenda sgualcita, ci sono il lavello e la branda; da questa parte invece, appoggiato al muro, il banco da lavoro, con la bilancia che dicevo, due paia di forbici da potatura annerite dall’uso, i guanti di gomma, la raffia per legare i mazzi di fogliame, un pacchetto di Nazionali e una scatola di cerini.
Sotto il banco di lavoro, riposta in una cassetta di legno che tengo chiusa con un lucchetto, c’è la polvere. Alzo a stento la cassetta e l’appoggio sul bancone, prendo la chiave del lucchetto e la apro: tredici pacchi di carta spessa e grezza, come quella  usata per i cartocci dei chiodi, che contengono due chili di materiale ognuno, sono lì davanti ai miei occhi.
Dunque ventiquattro chili li ho già venduti e con quelli mi ci pago le spese e mi metto qualche biglietto da mille in tasca; con i ventisei che mi sono rimasti, anche a caricare i furgari come si deve, ci faccio quindici o sedici sparocchetti. Ne ho da divertirmi per tutta la notte e posso fare il giro completo dei falò di tutti i rioni. Anzi in Piazza Cavour e dai Domenicani posso spararne anche due.
Tiro quindi fuori uno dei cartocci ed appoggio poi la cassetta con i rimanenti su una sedia impagliata che ho portato in cantina perchè si era sfondata.
Stendo sulla superficie di tavole grezze un largo foglio di carta da pacchi bella spessa ed apro l’involucro, lo porto sotto il naso ed aspiro profondamente: uhmmm, come pizzica le narici, è roba buona!
Controllo che l’ago della bilancia sia esattamente sullo zero e comincio a versare la polvere sul piatto fino a raggiungere i milletrecento grammi di peso.
In un’altro angolo del banco metto una bacinella smaltata e con un setaccio a rete fina, passo la limatura, che resti solo la più fine, quella che brucia meglio.
Ecco fatto, ora pesiamola! Centoventi grammi di limatura di ferro bastano e poi ne aggiungo altri cinquanta di quella d’alluminio che dà brillantezza. Ora devo macinare la polvere da sparo con il macinino ma prima voglio accendere la radio: sono le sei e a quest’ora c’è il giornale radio.
La radio a transistors dovrebbe funzionare con le batterie ma le pile costano tanto e durano poco. Così ci ho collegato un trasformatore da centoventicinque a dodici volts alimentato da un cavo a cui  ho collegato col nastro isolante una spina elettrica. Ho poi sostituito il portalampadina normale, che pende attaccato al filo proprio sopra il bancone, con uno che ha anche una presa elettrica doppia incorporata. È un impianto casareccio, fatto alla buona ma Bastianin l’elettricista mi ha detto come fare e mi ha assicurato che funziona. Accendo la radio e mi arrampico faticosamente sul bancone per collegare la spina del macinino alla fonte di elettricità. Salire sul bancone sarebbe niente, se non fosse per le botte che mi hanno dato e per la mezza fialetta che ho preso io per sopportare il dolore. Ed il ricordo!
Comunque salgo, collego il cavetto, lentamente ridiscendo, mi siedo e reprimo, visto quello che devo fare, la voglia di accendere una Nazionale. Riempio il macinino con quattro cucchiaiate di polvere da sparo, chiudo lo sportelletto e pigio il puls....

Epilogo
Dice che si è sentito prima un gran botto e che la porta della cantina è volata fuori sulla strada e sono scesi anche parecchi cornicioni. Per fortuna che in quel momento di lì non passava nessuno! Poi chi accorreva ha visto venir su dal sottoscala le fiamme e un fumo nero, spesso e irrespirabile. Non si riusciva ad avvicinarsi dal calore che si sprigionava e poi chi lo avrebbe fatto sapendo quello che Voghera teneva in cantina.
Augusto Barun è stato il primo che vinta la paura, ha realizzato che ormai dopo due o tre minuti di quell’inferno, se qualcos’altro doveva esplodere, a quel punto sarebbe già esploso. Così, dopo aver aperto al massimo il rubinetto della vasca dei garofani che ha nel magazzino lì di fronte, ha tirato la manica di gomma sulla strada ed ha cominciato a buttare acqua giù dalle scale che portano alla cantina.
Quando sono arrivati i pompieri da Sanremo, dallo scantinato usciva solo fumo e tutto il paese si era radunato nelle vicinanze.
Dice che dopo sono arrivati il magistrato di turno e il medico legale e alla fine Voghera l’hanno portato fuori su una barella coperto con un telo e che la sagoma  che si indovinava sotto quel misero sudario, non era più quella di un uomo, era accorciata: sembrava che i pompieri stessero portando via un bambino.

Danilo Sidari - 2005

1 comment:

  1. Danilo sei fortissimo, complimenti l'ho sempre detto io che alcuni blogger sono melgio di tanti scrittori, come avedo tra i acuni blogger anche dei fotografi fenomenali!
    W la gente come te!!!

    ReplyDelete