Saturday, November 13, 2010

HARRIS STREET


No mamma, no non l’ho mica fatto apposta! Lo so sai, cosa credi? Sono ubriaco e non sto quasi più in piedi. Non rimproverarmi, mamma, e non chiedermi di non farlo più perché non posso garantirtelo.
Sto male, sono molto stanco, mi gira la testa ed Harris Street sembra non finire mai. Mi sembrano ore ormai che barcollo da una parte all’altra del marciapiede in una linea che il mio cervello mi suggerisce retta ma che retta non è.
Faccio anche degli sforzi sai, dei tentativi, ma proprio non riesco a mantenere un’andatura da sobrio: troppo rhum, mamma! E non voglio neanche pensare alla possibilità che passi una pattuglia della polizia: magari mi tengono una notte in guardina, tanto per farmi smaltire la ciucca senza pericolo.
Ero uscito per distrarmi un po’, ché non reggevo più la depressione che mi attanaglia da giorni...passasse almeno un taxi! Ma alle tre del mattino, di sabato. E poi magari, se il conducente capisce che ho bevuto, non mi carica neanche!
Sono andato a mangiare due spaghetti allo scoglio da Pipino: lui, che non dorme in piedi e ha visto che ero un po’ giù, mi ha suggerito di andare a fare quattro salti all’Ocean Club, che l’hanno ristrutturato e adesso suonano musica cubana.
Così su due piedi mi è sembrata una buona idea: ho pensato che potevo bere un mojito o due, fare due balli e magari, se girava bene, conoscere una ragazza abbastanza in gamba da fare scomparire almeno per un po’ i fantasmi che mi frullano per la mente.
Sono lì appoggiato al banco che sorseggio il mio drink quando mi sento toccare la spalla: era Ginone, un ex collega, in compagnia di due ragazze. Offrono un giro e Ginone mi dice in italiano, per non farsi capire, che sta tirando alla moretta e se mi va di intrattenere l’altra così lui ha più spazio. Tu sai com’è, mamma, la solita storia, no?
La porto a ballare e tra un passo e un’altro di mambo, mi sembra che l’angoscia si affievolisca. Balliamo una mezz’oretta e poi, visto che Ginone e la tipa non si vedono più, la invito a bere. Ci sediamo ad un tavolino nel dehor e iniziamo il gioco. Lei è scaltra, oltre che carina, e mi da spazio, se ne prende, giostra e mi lascia giostrare, si lascia corteggiare e corteggia. Chiamo un’altro giro, mamma, che ci stava bene a quel punto e poi, sai com’è, le gran parole seccano la gola...e il testosterone anche.
Ma era dolce la tresca, s’intesseva bene, sarà stato anche l’alcool,  ed ai primi fugaci, rapidi contatti di mano ha fatto seguito un leggero sfregamento di labbra.
Prima di invitarla, mi sono messo a pensare alle condizioni in cui avevo lasciato l’appartamento dove vivo e ricordo di aver sorriso: avevo passato il pomeriggio a riordinare e fare pulizia, mamma, vedi come sono giudizioso.
Insomma ho saltato il fosso e l’ho invitata per un caffè italiano da me e lei, semplice, fresca come un sorso d’acqua, ha accettato.
Le ho chiesto di chiamare un taxi, ché io non uso il cellulare, e mi sono alzato per andare a pagare il conto.
Ritorno in un attimo e aspetto in piedi che lei riponga nella borsetta le sue cose quando dal flusso dei passeggiatori del Circular Quay si stacca una figura che conosco bene, mi si avvicina e senza tanti gira di parole mi apostrofa di una sonora botta di bastardo e rigiratasi sui tacchi si allontana sculettando per raggiungere l’amica che l’aspetta.
Ma si, era lei, il fantasma della mia mente. Cristo, mamma, quando dicevi che in amore chi disprezza compra, come avevi ragione! Dieci giorni fa mi ha mandato a quel paese dicendomi chiaro e tondo di lasciarla stare e di non cercarla più. Ed ora cosa significava sta scenata?
Le sono corso dietro, ché mamma, si, lo ammetto, è lei che voglio! L’ho chiamata per nome e finalmente sono riuscito a raggiungerla, a prenderle il braccio cercando di trattenerla. Lei si è voltata e mi ha mollato un ceffone da lasciare il segno delle cinque dita sulla guancia.
Sono rimasto lì come un fesso mentre lei si allontanava a braccetto della sua amica.
Ma si, penso, vai vai: e chi pensi di essere? Ma intanto due bei lucciconi mi sono scivolati sulle guance.
Sono ritornato sui miei passi con il morale sotto i tacchi! L’altra, ovviamente, era scomparsa.
E allora tutto il male, tutto quel dolore sordo è tornato a galla e non ho trovato di meglio che riappoggiarmi al banco e ordinarne uno, e un’altro e ancora e ancora.
Cristo se mi gira la testa, magari giro l’angolo e vomito! E laggiù c’è un’auto bianca che si avvicina, una pattuglia della polizia, ci scommetto: la sagoma che si intravede sul tetto sono le luci blu, anche se adesso sono spente.
L’auto mi raggiunge, rallenta ed accosta al marciapiede. Sono fottuto, penso, con un misto di ironia ed amarezza. Tento un’improbabile indifferenza continuando a camminare barcollando, ma l’auto si arresta proprio alla mia altezza. Lo sportello posteriore si apre.
Beh...questa poi!
La donna di prima, quella del mambo, scende dal taxi, ché è un taxi mà, non una macchina della polizia, mi prende per il braccio e reggendomi mi fa:
- Sali! Andiamo a prendere stò caffè a casa tua, ché ne hai veramente bisogno!

Danilo Sidari

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