Seconda puntata
Oggi vi propongo una delle canzoni più famose del cantautore genovese Fabrizio De Andrè, cioè Bocca di rosa.
In un intervista che De Andrè rilasciò a Vincenzo Mollica, egli dichiarò che Bocca di rosa era la canzone che gli era più cara ed era più vicina al suo modo di essere.
Il brano, uscito in 45 giri all’inizio degli anni ’60, racconta la vicenda di una donna forestiera che con il suo atteggiamento passionale e libertino sconvolge la quiete di un paesino di provincia. L’autore prende di mira la mentalità perbenista e bigotta della popolazione che non tollera la condotta di Bocca di rosa e che infine la fa espellere dal paese dalle forze dell’ordine. Il testo è sprezzante con le donne cornificate, “le cagnette a cui aveva sottratto l’osso”, in contrapposizione negativa alla figura di Bocca di rosa che invece “metteva l’amore sopra ogni cosa”.
A testimoniare quanto questa canzone sia entrata nell’immaginario collettivo va detto che l’espressione “bocca di rosa” è entrata nel linguaggio comune come eufemismo di prostituta. Ma l’accezione è erronea in quanto la donna non faceva l’amore “per professione” ma “lo faceva per passione”.
Alla forzata partenza di Bocca di rosa assistono tutti gli uomini del paesello che vogliono salutare “chi per un poco portò l’amore nel paese”. Ma alla tristezza di quell’addio si contrappone la festa dell’arrivo alla stazione successiva, dove la donna viene accolta trionfalmente e addirittura voluta dal parroco in processione.
Da un punto di vista simbolico, Bocca di rosa fa una sua rivoluzione privata disobbedendo alle leggi del branco e attuando questa rivoluzione di costumi attraverso il mezzo della forza dirompente della sensualità.
La corporalità e la sessualità sono viste come portatrici di impulsi irrazionali e per questo difficilmente controllabili dal potere. Ed è per questo motivo che il potere stesso provvede a far togliere il disturbo a Bocca di rosa. Questo non basta però a sconfiggere l’amore di quella donna che, come abbiamo visto, viene accolta festosamente nel paesino successivo e addirittura, con un parallelo tra “amore sacro e amor profano” portata in processione a fianco del parroco.
Per una comprensione esaustiva della canzone bisogna inoltre inserirla nel contesto storico in cui fu scritta cioè all’inizio degli anni ’60, l’Italia in pieno boom economico, gli uomini visti come potenziali “clienti”, i flussi migratori, i blue-jeans, le minigonne in contrapposizione al cambiamento del costume popolare pressoché inesistente o lentissimo. Basti pensare al fatto che fino alla fine degli anni ’60 l’adulterio commesso dalla moglie era punito meno gravemente di quello commesso dal marito, ergo giuridicamente la donna godeva di minor considerazione. Basti pensare che solo all’inizio degli anni ’80 è sparito dal codice penale il cosiddetto “delitto d’onore”. Basti pensare, infine, al significato che veniva dato al “comune senso del pudore” in quegli anni, al rapporto tra il sesso e la procreazione, alle polemiche suscitate dall’introduzione dell’uso degli anticoncezionali. Sembra, a sentire certe voci di oggi, che le cose non siano cambiate poi molto.
Danilo Sidari - 2011
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