o della multietnicità di una piazza ponentina.
In principio era a Ciazza! Lasciatosi alle spalle circa ducento anni, tra il quindicesimo ed il diciassettesimo secolo, caratterizzati da guerre, lutti, pestilenze e carestie, il borgo aveva ripreso a crescere ed espandersi verso la piana solcata dal torrente Argentina. A valle di San Dalmazzo, la principale via cittadina, quella delle botteghe e delle taverne, le famiglie nobili avevano fatto costruire i loro palazzi. E tra essi, che desse aria e luce alle case, il nuovo salotto cittadino, il Pantan, la via porticata che conduceva alla chiesa di S. Bastiano.
Altri due secoli, e siamo al diciannovesimo, di ulteriore espansione aveva finito per inglobare nel tessuto urbano anche il lungofiume che dal mare risaliva la valle, proseguiva in direzione delle prime alture e attraversati i monti dell”Appennino sfociava nei territori piemontese a levante e francese a ponente.
A Ciazza interrompeva la linearità dello stradone polveroso che saliva dalla marina e attraversava il paese e ben presto divenne la nuova agorà taggiasca, il luogo di ritrovo popolare.
Alla fine dell’Ottocento, al centro del piazzale era stato elevato il monumento ai fratelli Ruffini, eroi risorgimentali: un bell’obelisco marmoreo la cui base fu arricchita da quattro medaglioni bronzei del Biscarra. Intorno un giadinetto, anch’esso quadrato, racchiuso in una ringhiera in ferro battuto: in tutto non più di dodici metri quadri.
A ciazza era diventata Piazza Eroi e continuava ad essere frequentata quasi esclusivamente dagli indigeni liguri, se si eccettuavano gli occasionali grossisti di mandarini prima di Natale e di ciliegie a maggio.
Doveva passare ancora mezzo secolo prima che sotto i grossi platani che facevano da corollario al luogo di ritrovo pubblico, si udisse l’eco di un dialetto che non fosse quello locale.
La seconda guerra mondiale era appena finita quando le prime famiglie di calabresi iniziarono ad arrivare e ad abitare quelle case della parte alta del paese, da San Dalmazzo fino a sotto la torre, scomode e perciò lasciate vuote dai taggiaschi più abbienti.
Oltre alla loro miseria, i calabri avevano portato anche il loro vernacolo naturalmente e ben presto questo risuonò in piazza ad affermare la loro presenza.
In piazza stavano nell’angolo a sud-ovest, quello dov’erano la farmacia, i bagni publici e la fermata del filobus.
La loro presenza si fece via via più numerosa e, come conseguenza, a tratti anche più spavalda, pungolata dalla palese refrattarietà dei locali di fronte all’ennesima, anche se pacifica, invasione del loro territorio.
Non pochi furono i dissapori che si verificarono tra i vecchi ed i nuovi abitanti del capoluogo della valle Argentina.
Ma il tempo cambia tutto in abitudine: in virtù dei rapporti lavorativi che andavano sempre più intensificandosi si giunse alle prime amicizie maschili tra terrui e taggiaschi vissute alla luce del sole. Quando poi a questa prima fase di studio, fecero seguito i primi matrimoni misti, lentamente, con lo scorrere degli anni, i due gruppi componenti il tessuto sociale, finirono per imparare a convivere.
La parabola del multietnicismo tabiese era tutt’altro che esaurita però, e la piazza continuò ad esserne la fedele cassa di risonanza e l’accogliente contenitore di pulsioni tutte mediterranee, è vero, ma, per così dire, diverse tra loro.
Dalla fine degli anni ’70, prima sul litorale poi via via anche nell’entroterra, fecero la loro comparsa i primi venditori ambulanti nordafricani. Carichi di paccottiglia, di miseria e, naturalmente del loro idioma, rappresentarono agli occhi incuriositi ma non sempre ospitali dei frequentatori abituali di Piazza Eroi, l’opportunità palese e, ahimé, non recepita, di dimostrare di aver appreso qualcosa dalla ciclicità della Storia. Ai taggiaschi infatti, ora si univano anche gli oriundi calabresi, dimentichi di ciò che fino a qualche anno prima avevano dovuto subire, nel rendere tutt’altro che sopportabile la permanenza dei magrebini. Come in un déjà vu dal retrogusto amaro, gli stereotipi, le discriminazioni, le offese, in qualche caso le botte, ritornavano a regolare i rapporti con gli ultimi arrivati: gli estranei, i diversi.
Ma proprio come per i calabresi, anche gli ultimi arrivati finirono per fare della loro miseria e della loro diversità culturale, gli strumenti per resistere ed adattarsi.
Stavano di fronte alla pensione Florida, all’angolo nord-est della piazza: era diventanto col tempo il loro angolo, l’angolo dei vu cumprà.
Rotolano gli anni velocemente e giungiamo con questa nostra rapida carrellata sulle varie componenti etniche della popolazione taggese, all’ultimo capitolo fino ad ora scritto.
L’informazione, le notizie, vere o false che siano, persino i pettegolezzi più stupidi, raggiungono, grazie al progresso tecnologico, popoli anche molto lontani da noi. Figuriamoci poi quelli che vivono sull’altra sponda dell’Adriatico o a sud di Tunisi o di Marrakesh: durante tutti gli anni ’80 avevano avuto sotto gli occhi, grazie alla televisione, le immagini di un Italia benestante, di un’Italia “da bere”, del nuovo paese del bengodi, del posto dove i soldi si guadagnavano facilmente e velocemente. Iniziò così un esodo verso lo Stivale, proveniente soprattutto dall’area balcanica, ma anche dall’Africa sub-sahariana, e da alcuni paesi orientali, reso possibile dalle barche della mafia e dalla complicità delle autorità dei paesi d’origine, che - anche qui corsi e ricorsi storici tipo italiani nel secondo dopoguerra - vedevano così attenuarsi pericolose tensioni sociali. Gli slavi, soprattutto albanesi, alla scoperta del loro bengodi, si sparsero per tutta la penisola e Taggia come moltissime altre località italiane, rivisse non senza un certo disappunto una nuova invasione di forestieri.
La piazza intanto, aveva testimoniato nuove collocazioni etniche. I calabresi, ormai non più entità estranea alla popolazione indigena, si erano spostati, a seguito della loro ultimata integrazione, nell’angolo nord-ovest del salotto cittadino, quello storicamente occupato dai locali, liberando così quella che era stata la loro porzione storica di suolo pubblico, quella a sud-ovest. Porzione che, a sua volta, è stata ed è ora occupata dagli albanesi. Ed è lì che la mattina i vassalli al soldo dei baroni taggiaschi del fogliame ornamentale passano a prenderli per condurli ad una giornata di lavoro pesante, non assicurata e sottopagata. Caratterizzata inoltre dalla sistematica distruzione del sottobosco appeninico dove l’ibisco, la mortella, il lentisco non sono più, purtroppo, meravigliosi e millenari esempi di flora locale, rifugio e in qualche caso cibo della locale fauna, ma mazzi da vendere a peso per abbellire il soggiorno delle case nord-europee.
Capita che, magari in preda ai fumi dell’alcool, consapevole dello sfruttamento, dei maltrattamenti, della frustrazione per la delusione per questa Italia che quando la “bevi” ti lascia in bocca un gusto amaro, capita che qualcuno degli slavi, diventi violento. Allora lo stereotipo per cui gli albanesi sono tutti “delinquenti e le loro donne tutte bagasce”, salta di nuovo fuori prepotentemente. E se proverete, con coloro che già si sono integrati, ad argomentare, vi gratificheranno di uno sguardo tra l’incazzato ed il compassionevole e nella migliore delle ipotesi vi sentirete dire che “potevano starsene a casa loro”!
Danilo Sidari
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