Tuesday, September 21, 2010

Amare amandosi

Uno
Non ce la faccio più a restare con le mani in mano!
Con il passare degli anni mi sono sempre di più sforzato di  affinare l’arte del saper scegliere le cose da fare: quelle, in buona sostanza, che mi sono sembrate utili e non più procrastinabili. Tra esse ha via via acquisito sempre più importanza e senso compiuto il semplice, fascinoso, terapeutico “dolce far niente”. Sdraiarsi all’ombra di un pino marittimo nei giorni afosi di luglio mentre si mordicchia uno stelo d’erba e si gode della carezza della brezza sul viso accaldato; oppure restare pigramente accovacciati sotto il piumone nelle fredde mattinate di febbraio, magari ascoltando della musica classica: cos’altro potrebbe darmi una così intima, una più completa soddisfazione?
Ma ora devo agire, fare qualcosa! Intendo dire in questo periodo, cioè per la verità oggi, subito.
Me ne andrò nell’orto!
Un’opera, qualunque essa sia, non è che l’ennesima copia dell’originale. Se si desidera, una volta che essa è stata portata a termine, andarsene a dormire con la serenità di chi ha fatto un buon lavoro, bisogna che la copia sia riprodotta bene e questo non tanto per una mera questione estetica o di tornaconto, ma in quanto essa deve essere il mezzo con cui si intende condividere il messaggio originale cioè lo scopo originario per cui l’opera fu, per la prima volta, portata a termine.
Se quindi si vuole riprodurre una buona copia, bisogna essere padroni dell’arte necessaria a che essa sia dignitosamente portata a compimento. In altre parole, bisogna sapere il mestiere!
Dal grigiore di una miriade di occupazioni da me intraprese e con una certa dose di venalità benedette in quanto apportatrici di pecunia, spicca la smeraldina luminosità dell’unica arte che sempre maledissi per la fatica che comportava il praticarla, ma che, grazie a mio padre, fortunatamente appresi: quella del coltivare un orto.
La magia di preparare il terreno zappandolo ed estirpandone le erbacce, di concimarlo con letame ben maturato, di tracciare i solchi ben allineati e poi di mettere a dimora le pianticelle di pomodoro, di basilico, di cavolfiore, di melanzana, di fagioli, di fave, di peperoni. 
L’ingegno geometrico delle costruzioni di canna atte a reggere i rampicanti dei piselli, dei fagiolini, delle zucche. E quello idraulico atto ad incanalare, a chetare nei solchi già tracciati e seminati, l’irruenza dell’acqua che scorre nel canaletto lungostrada.
La poesia del potare gli ulivi e la vigna del Vermentino e poi la bacchiatura e le olive che rotolano sulle reti stese o i grappoli posati delicatamente nei cavagni.
L’orgasmo di quella prima pera addentata sbrodolandosi volutamente il mento con quel  nettare; di quella fetta di pane casareccio condito con il primo ruju di quel liquido aspro, verdastro, che pizzica la gola; del gusto fruttato ed acidulo di quel primo bicchiere di vino che si beve a novembre.
Ecco, me ne vado nell’orto, zappo una fascia, ci spargo due carrettate di letame e ci pianto mezzo quintale di patate che hanno già tutte un bel germoglio.
Così, nella consuetudine del gesto fisico, nel gusto salato del mio sudore ed in quello neutro dell’acqua con cui mi disseto, nell’indolenzimento della mia schiena e delle mie braccia, nelle  parole di sprone che mormoro, come ad un figlio, ad ogni patata che seppellisco sotto la terra, ritroverò, forse, un centro.
Un centro che in certi momenti mi appare vivido, perfettamente raggiungibile e, ancora più importante, costantemente a portata di sensi. Ma che malgrado la mia buona volontà, a tratti, improvvisamente scompare, lasciandomi nuovamente come smarrito in una landa deserta in cui il fantasma spaventoso della dipendenza emotiva vaga sghignazzando irriverente ed incurante delle mie debolezze.
Uomo avvertito mezzo salvato, dice il proverbio! Che poi io l’abbia ripetutamente ignorato questo è un’altro discorso. Del resto non sono mica venuto a raccontare delle mie pene, dei miei dubbi, della mia ottusità, della mia credulità.
Il passato è passato ed oggi racconto di questo mio lavoro, di questo mio sforzo per localizzare quel centro che dicevo e poi tenerlo fermo fino a che diventi qualcosa di mio, di certo, di costante. Un’abitudine, insomma, una sana abitudine.
Mi si dirà, magari sarcasticamente: e cosa fai, vai nell’orto a trovare il centro?
E si, vado nell’orto! Lì, come dicevo, alle prese con rituali semplici, immutabili perchè dettati da dinamiche che esulano dalla mia volontà e che posso solo perpetuare, lì riesco a riacquisire il ruolo che mi spetta di diritto, lì riesco a ritrovarmi, a calmarmi. E quando sono calmo e consapevole della mia forza, della mia capacità, ecco, in quel momento cesso di aver bisogno, cesso di dipendere.
Ed è allora che riprendo pienamente a vivere!
(continua)

1 comment:

  1. Un fratello soleva ripetermi che la strega ha le mani sporche di terra :) e profuma di bosco. Anche se siamo sempre meno a profumare....

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