Wednesday, September 29, 2010

Fotogrammi

Alba, panbagnat,
Cespugli ordinati tempestati di gocce bianche

Stanze che odorano di lavanda

Madri, là, che attendono, e uomini
che vi fanno ritorno
Ventri che si cercano
E poi certe gelosie,
E il mio terrore dietro quella porta,
in cima alla spirale.
Ricordi che scolorano nell’io
Che sto ancora cercando
                                                          
Danilo Sidari - 1992

Saturday, September 25, 2010

Tempus fugit

Perché se è la tenacia
Che guida la tua mano
Ben poco, amico, è il tempo
Che ti resta per parlare
Perché se è di uno scopo
Che riempi i tuoi giorni
E’ nullo, uomo, il tempo                               
Che ti resta per piangere  
                 
Danilo Sidari - 11 gennaio 2008

Thursday, September 23, 2010

Amare amandosi

Tre
La danza, l’intreccio dei due serpenti, va avanti da circa due mesi!
Dopo quella cena e la conseguente scoperta che ci piacevamo, i nodi sono venuti subito al pettine.
I quali nodi possono essere riassunti in una semplice constatazione: quando ci si è bruciati più di una volta, si impara che con il fuoco è meglio non giocarci!
E noi due, a mettere insieme le esperienze passate, faremmo la gioia di un produttore di creme emollienti contro le ustioni.
Ma le ustioni servono, eccome! Poco per volta, bruciatura dopo bruciatura, si impara che volersi bene non significa imporre la propria volontà o dover cedere a quella del partner; si impara che ci si deve accettare ed essere accettati per quello che si è; si impara che non ci si può ridurre a vivere come dei pupazzi di stoffa per la paura di perdere la persona che si ama, o si crede di amare.
Ma si impara anche che in amore le cose vanno fatte col cuore; che in amore è necessaria una presenza di mente costante e si impara che questa richiede forza, sacrificio, perseveranza. E nell’esercizio quotidiano della forza, del sacrificio, della perseveranza, si impara, in definitiva, ad amare se stessi per amare chi si vuole amare.
Queste e tante altre cose sappiamo e ci siamo detti Guendalina ed io. Queste ed altre cose sono saltate fuori!

Me ne vado nell’orto, non c’è altra soluzione, per adesso!
Mezzo quintale di patate, cinquanta chili di tuberi da sotterrare! L’esperienza mi insegna che datosi un terreno ben concimato, una irrigazione sufficiente e condizioni climatiche normali per la stagione, la resa dovrebbe aggirarsi sui sette chili di patate per ogni chilo piantato. Sempre che si escluda una visita notturna dei cinghiali che gironzolano indisturbati da queste parti, alle falde dell’Appennino ligure. Visita  che considerata la smodata passione che i suddetti mammiferi ungulati hanno nel dissotterrare i tuberi di ogni sorta, risulterebbe devastante per la mia piccola coltivazione.
I cinghiali dicevo, loro si che sono centrati: l’essenza esistenziale di questo animale può essere riassunta in poche e brevi note.
Una bestia crepuscolare: durante il giorno trova riparo in qualche buca nel terreno che scava col muso e gli zoccoli. Di notte trotterella per chilometri per procurarsi il cibo. Tutt’altro che remissivo, il cinghiale se preso alla sprovvista o messo alle strette, attacca furiosamente. Ciò nonostante è da considerarsi una bestia socievole: le femmine, in gruppi di una ventina di esemplari guidati dalla scrofa più anziana, vivono con i cuccioli. I giovani maschi che non si sono ancora accoppiati vivono in gruppi separati, non lontano dal gruppo delle femmine. I maschi adulti invece conducono per la maggior parte dell’anno vita solitaria. Quando la femmina va in estro il maschio abbandona la vita solitaria per aggregarsi al gruppo delle femmine. Prima scaccia i giovani maschi ancora nei dintorni poi affronta la lotta con gli altri maschi adulti. Al vincitore tocca la fase del corteggiamento fatta di suoni, grugniti e sfregamenti vari che terminano con l’accoppiamento. Una volta terminato questo, il maschio torna alla sua vita solitaria fino al prossimo periodo degli amori.
Semplice, no?
Si fa presto a dire: si, ma sono bestie! Ma in queste poche, necessarie, determinanti fasi esistenziali che si ripetono con cadenza giornaliera da millenni, sta proprio la centratura di questo bestione di oltre cento chili di peso che sa muoversi rapido come un coniglio selvatico. Un susseguirsi di gesti identici dettati da un impulso primordiale che non ha subìto l’onta di secoli e secoli di qualsivoglia morale. Una copia della copia della copia dell’opera originale che non ha perso, se non quando è tenuto in cattività, il senso del messaggio originale cioè lo scopo originario per cui l’opera fu, per la prima volta, portata a termine.
Ed ecco il senso, lo scopo del centrarsi. Ritrovare il bello in sè stessi, ritrovare la meravigliosa perfezione del messaggio originale, dello scopo primario per cui siamo stati creati.
Non come me che passo gli anni a constatare che non riesco più a fidarmi di una donna. Che non riesco a vivere il presente ma continuo a ripescare le ferite del passato e proiettarle nel futuro, sorta di Giano bifronte riuscito male. 
Guendalina, le altre prima di lei o quelle che forse verranno dopo, l’equazione è la medesima:  centrarsi e ritrovare quella sicurezza nella mia propria bellezza innata, immarcescibile quando e se colta nella sua vera essenza! Centrarsi e ritrovare quella sicurezza che c’era prima di incontrarla e, inevitabilmente, di rischiare di perderla a causa della mia insicurezza, della mia gelosia. Centrarsi e nella centratura lavorare ancora e ancora, instancabilmente, a quell’amore di me stesso che mi porti infine ad acquisire una forza totale, sincera, scevra di fronzoli si, ma anche di inutili e deleterie paure. Quella forza che, sola, può darmi la lucida consapevolezza che amare non significa appoggiarmi a te, aver bisogno di te o di chissà chi altro, ma trasmetterti la mia bellezza, la mia integrità di uomo, di maschio. Una forza che senza remore, sappia farmi intimamente, completamente, apprezzare la donna, e la femmina, che è in lei.

Fine 

Tuesday, September 21, 2010

Amare amandosi

Due
È lì che valuta, tenendole tese tra le dita, un paio di mutandine di pizzo molto sexy. Io, a distanza di qualche metro, non visto, la guardo. Chissa cosa pensa, mi chiedo. Magari che effetto faranno al suo uomo quando le indosserà. Non è più una ragazzina ma quel che giocoforza ha sacrificato al tempo, l’ha acquisito in sicurezza, in sensualità. Volta l’indumento intimo, ne valuta la consistenza del tessuto tra l’indice ed il pollice, lo allontana dagli occhi tendendo le braccia per farsene un’idea d’insieme: una serie di gesti studiatamente ingenui, un tributo alla femminilità, una danza sensuale!
Assistervi e spronare la mia fantasia al galoppo è un tutt’uno! Eccomi, in men che non si dica, sdraiato sul divano di pelle di un salottino, con un calice di Terre Bianche del 2004 tra le dita. La osservo concupiscente mentre lei, con fare studiato, passeggia su e giù mollemente indossando la parure di pizzo nero che veste in maniera semplicemente, naturalmente eccitante. Mi guarda e con civetteria mi chiede:
- Come mi sta?
Qualcuno passa e mi urta ed alle mie fantasie erotiche si sovrappone la realtà che, nella fattispecie, è il suo viso divertito che mi guarda sorridendo. Pur essendo consapevole che ho spiato quel suo momento di intimità, nel suo sguardo non c’è traccia di imbarazzo, nè di biasimo.
Decido che si tratta di un implicito invito a rivolgerle la parola, mi avvicino e con fare tronfio le chiedo:
- Le dispiace mostrarmi la sua mano sinistra.
- Vuole predirmi il futuro – ribatte lei ironica.
- No, volevo semplicente constatare da me se ci sono o meno anelli all’anulare.
- Voi uomini - chiosa lei – mi dica, perché non va al punto direttamente, senza giri di parole?
La sua sicurezza smonta in buona parte la mia baldanza ma riesco comunque a farfugliare senza decisione che in caso non ci fossero anelli potrei forse arrischiarmi ad invitarla a cena.
- E allora – mi bacchetta lei metaforicamente – perché non chiedermi direttamente se sono impegnata o meno in una relazione sentimentale – e si allontana sorridendo col suo passo sicuro.
Touché! Resto lì fermo, basito, a ripensare a come mi ha liquidato con quattro parole.
Poi mi allontano, imbarazzato, guardandomi attorno per accertarmi che nessuno abbia assistito alla figura da fesso che ho appena fatto.
Lavora nella farmacia situata al piano terra dello stabile dove anche io, qualche piano più in su, mi guadagno da vivere come archivista negli uffici di una ditta di import-export di marmi e graniti. Come conseguenza, quando passo davanti a quelle vetrine per andare al bar a prendere il caffè di mezza mattinata, prendo ad occhieggiare tra gli scaffali colmi di dentifrici e antidolorifici. Lei non fa cenno di vedermi. Mai.
Finché una mattina noto che ha fatto arricciare i suoi capelli. Sta mettendo a posto delle scatole di chewin-gum alla nicotina su una scaffalatura vicino alla vetrina. Mi sporgo all’interno, attiro la sua attenzione e le faccio il gesto del cavatappi con le dita tese, a sottolineare che ho notato la nuova acconciatura. Lei mi guarda, sorride e mi risponde divertita:
- Per te.
Avrò capito male?
E basta con questa menata che poi magari si rivelerà tutto un gioco, un’enfasi che lei ha messo nella sua risposta per mettermi nuovamente in imbarazzo, per prendersi gioco di me. Una figura meschina l’ho già fatta e mi è stato cortesemente fatto notare che non sono graditi i giri di parole.
La invito per il caffè: non può lasciare il suo posto adesso. Insisto, le dico che glielo porto lì e lei accetta.
È iniziata così!
I caffè si sono ripetuti, poi il pranzo e infine la fatidica cena.
La accompagno a casa e mi invita dentro per il sambuchino della staffa.
Entro: bell’appartamento, arredato con sobrio minimalismo. In salotto, sopra un caminetto di ardesia, fa bella mostra di sè una stampa de L’origine du monde di Courbet. Mentre sorseggiamo il liquore d’anice, si commenta che senza dubbio l’artista francese ha saputo condensare in quella significativa immagine, tutta la filosofia del titolo dato al dipinto.
Quando ci voltiamo, per un attimo i nostri occhi colgono, nei reciproci sguardi, una scintilla di desiderio. Il primo bacio viene da sè, naturalmente. Gli altri sono cercati ma non per questo meno emozionanti e quando ormai semisdraiati sul divano io inizio a pregustare il prosieguo della nottata, ecco che lei si tira indietro, mi stacca da sè con tanta dolcezza ma con altrettanta decisione e gelando le mie aspettative pirotecniche mi dice:
- Ascolta Gino, mi piaci, non lo nego, ma stiamo correndo troppo. Ci conosciamo appena e non abbiamo mai parlato di come intendiamo una relazione sentimentale. Spero che lo faremo presto! È stata una bella serata ma ora ho sonno, voglio andare a riposare. Vuoi un caffè per tenerti sù al ritorno a casa tua?                                                                                        
Vado via con un certo senso di incompiuto che però si stempera nelle sue parole, quel mi piaci, non lo nego, che mi ronzano con dolcezza in testa.
(continua)

Amare amandosi

Uno
Non ce la faccio più a restare con le mani in mano!
Con il passare degli anni mi sono sempre di più sforzato di  affinare l’arte del saper scegliere le cose da fare: quelle, in buona sostanza, che mi sono sembrate utili e non più procrastinabili. Tra esse ha via via acquisito sempre più importanza e senso compiuto il semplice, fascinoso, terapeutico “dolce far niente”. Sdraiarsi all’ombra di un pino marittimo nei giorni afosi di luglio mentre si mordicchia uno stelo d’erba e si gode della carezza della brezza sul viso accaldato; oppure restare pigramente accovacciati sotto il piumone nelle fredde mattinate di febbraio, magari ascoltando della musica classica: cos’altro potrebbe darmi una così intima, una più completa soddisfazione?
Ma ora devo agire, fare qualcosa! Intendo dire in questo periodo, cioè per la verità oggi, subito.
Me ne andrò nell’orto!
Un’opera, qualunque essa sia, non è che l’ennesima copia dell’originale. Se si desidera, una volta che essa è stata portata a termine, andarsene a dormire con la serenità di chi ha fatto un buon lavoro, bisogna che la copia sia riprodotta bene e questo non tanto per una mera questione estetica o di tornaconto, ma in quanto essa deve essere il mezzo con cui si intende condividere il messaggio originale cioè lo scopo originario per cui l’opera fu, per la prima volta, portata a termine.
Se quindi si vuole riprodurre una buona copia, bisogna essere padroni dell’arte necessaria a che essa sia dignitosamente portata a compimento. In altre parole, bisogna sapere il mestiere!
Dal grigiore di una miriade di occupazioni da me intraprese e con una certa dose di venalità benedette in quanto apportatrici di pecunia, spicca la smeraldina luminosità dell’unica arte che sempre maledissi per la fatica che comportava il praticarla, ma che, grazie a mio padre, fortunatamente appresi: quella del coltivare un orto.
La magia di preparare il terreno zappandolo ed estirpandone le erbacce, di concimarlo con letame ben maturato, di tracciare i solchi ben allineati e poi di mettere a dimora le pianticelle di pomodoro, di basilico, di cavolfiore, di melanzana, di fagioli, di fave, di peperoni. 
L’ingegno geometrico delle costruzioni di canna atte a reggere i rampicanti dei piselli, dei fagiolini, delle zucche. E quello idraulico atto ad incanalare, a chetare nei solchi già tracciati e seminati, l’irruenza dell’acqua che scorre nel canaletto lungostrada.
La poesia del potare gli ulivi e la vigna del Vermentino e poi la bacchiatura e le olive che rotolano sulle reti stese o i grappoli posati delicatamente nei cavagni.
L’orgasmo di quella prima pera addentata sbrodolandosi volutamente il mento con quel  nettare; di quella fetta di pane casareccio condito con il primo ruju di quel liquido aspro, verdastro, che pizzica la gola; del gusto fruttato ed acidulo di quel primo bicchiere di vino che si beve a novembre.
Ecco, me ne vado nell’orto, zappo una fascia, ci spargo due carrettate di letame e ci pianto mezzo quintale di patate che hanno già tutte un bel germoglio.
Così, nella consuetudine del gesto fisico, nel gusto salato del mio sudore ed in quello neutro dell’acqua con cui mi disseto, nell’indolenzimento della mia schiena e delle mie braccia, nelle  parole di sprone che mormoro, come ad un figlio, ad ogni patata che seppellisco sotto la terra, ritroverò, forse, un centro.
Un centro che in certi momenti mi appare vivido, perfettamente raggiungibile e, ancora più importante, costantemente a portata di sensi. Ma che malgrado la mia buona volontà, a tratti, improvvisamente scompare, lasciandomi nuovamente come smarrito in una landa deserta in cui il fantasma spaventoso della dipendenza emotiva vaga sghignazzando irriverente ed incurante delle mie debolezze.
Uomo avvertito mezzo salvato, dice il proverbio! Che poi io l’abbia ripetutamente ignorato questo è un’altro discorso. Del resto non sono mica venuto a raccontare delle mie pene, dei miei dubbi, della mia ottusità, della mia credulità.
Il passato è passato ed oggi racconto di questo mio lavoro, di questo mio sforzo per localizzare quel centro che dicevo e poi tenerlo fermo fino a che diventi qualcosa di mio, di certo, di costante. Un’abitudine, insomma, una sana abitudine.
Mi si dirà, magari sarcasticamente: e cosa fai, vai nell’orto a trovare il centro?
E si, vado nell’orto! Lì, come dicevo, alle prese con rituali semplici, immutabili perchè dettati da dinamiche che esulano dalla mia volontà e che posso solo perpetuare, lì riesco a riacquisire il ruolo che mi spetta di diritto, lì riesco a ritrovarmi, a calmarmi. E quando sono calmo e consapevole della mia forza, della mia capacità, ecco, in quel momento cesso di aver bisogno, cesso di dipendere.
Ed è allora che riprendo pienamente a vivere!
(continua)

Wednesday, September 15, 2010

Una storia vecchia

Fu pubblicata anni fa su http://www.mentelocale.it/ (che vi consiglio di seguire) grazie all'ospitalità dell'amica Laurona "Capa" Guglielmi. Oggi la ripropongo per chi a suo tempo l'avesse "ciccata". Naturalmente..ça va sans dire.. i fatti e i personaggi narrati sono reali. Buona lettura.

Via Gastaldi 15/A
C'era una volta, a Taggia, una cantina! Un antro poco illuminato e odoroso di muffa che veniva usato per lavorarci: ci facevano delle ceste, per l'esattezza.
Menegò Buccalarga ci tenne bottega per decenni senza però trascurare, occasionalmente, di farci anche bisboccia con gli amici. Quando smise, verso la fine degli anni ‘70, ormai vecchio e vedovo, per la sua minestrina serale ed un po’ di compagnia prese a frequentare il bar Castelin. A proposito di bar, nello stesso periodo, sulla costa a tre chilometri di distanza, imperversava il Tre Alberi! Locale sul mare, spiaggia, terrazza con tavolini ed Abdu, un gran brav'uomo ed un barman impareggiabile.

Cosa c'entra il Tre Alberi con la cantina? Calma, ci arrivo! Il bar, allora, lo gestiva Cecco Mazza, figura storica del panorama libertario sanremese, ed il locale era prevalentemente frequentato dal popolo del Movimento della città dei fiori e in generale, di tutta la provincia.
Un periodo quello, contrassegnato dall'entusiasmo, dalla consapevolezza di essere tanti, di essere forti, di avere un'ideale per cui lottare. Insomma quel bar era diventato un punto alternativo, e a volte controverso, di aggregazione e finì per dare fastidio a qualcuno.
Ci furono delle perquisizioni, si fecero delle indagini, fu messo sù in qualche modo un caso giudiziario che fu ben presto ridimensionato, ma con il quale si era voluto lanciare un segnale chiaro e forte. Qualche tempo dopo infatti, Cecco cedette l'attività. Del resto, l'entusiasmo ormai scemava, l'eroina montava e Craxi era alle porte: quell'attimo era fuggito, quel gruppo si disciolse e si sperse in mille rivoli di disillusione, di tossicodipendenza o in alternativa, di rampantismo social-democratico.

Con il ricavato della cessione del bar, Cecco comprò una casa a Taggia, la stessa nel cui basso, a suo tempo, Menegò aveva intrecciato vimini, e ci andò a vivere con la sua famigliola. Dicevamo di Buccalarga e del bar Castelin dove anche Cecco scendeva per qualche chiacchiera con gli amici e per il gotto del Dolcetto. Insomma i due si conobbero! Ben presto l'ex cestaio prese a narrargli le virtù della sua cantina, finendo ogni volta immancabilmente per offrirgliela ad un prezzo vantaggioso. Alla fine Cecco si convinse e l'acquistò. Ma non ci fece nulla, la lasciò vuota. Cioè proprio vuota no! Per dovere di cronaca dobbiamo ricordare che per un certo periodo di tempo, essa diventò il ricovero delle pecore di Mario, il pastore sardo. Poi fu la volta del leone! Un giorno d'inizio estate a metà degli anni '80, incontro sulla passeggiata a mare Maurizio, un balengo di Brindisi, che teneva al guinzaglio un leoncino. Domanda scontata: - Cosa ci fai con un leoncino ad Arma - gli chiedo ironico.- Eh cosa vuoi, bisogna arrangiarsi. Io vado in giro con la belva ed una polaroid, i bambini fanno i capricci perché vogliono la foto ed io passo all'incasso dalle mammine. Cinquemilalire per un ricordo del bambino col leoncino e la Fortezza sullo sfondo - mi risponde senza tentennare. - Si vabbè ma dove lo tieni un leoncino, sul divano di casa - insisto. - Ma sai - mi dice - ho chiesto in giro e fino a che è piccolo me lo fanno tenere in una cantina a Taggia. Poi in autunno quando la stagione è finita, lo dò a uno zoo-safari in Piemonte - conclude. Una notte del novembre dello stesso anno, quando ormai i versi provenienti dalla cantina di Cecco, quelli del gattone, erano diventati quasi dei ruggiti, i vicini, spaventati e disgustati dal lezzo che ormai perdurava da settimane, protestarono. Il leone, anestetizzato e poi “caricato” su un'Ape Piaggio, fu trasportato in una campagna sulle alture prospicienti il convento dei Domenicani e chiuso in un apposito recinto che un facoltoso floricoltore amante degli animali aveva messo a disposizione. E’ passato a miglior vita nel 2002: il leone1 Il floricoltore non sò…!Ma tornando ai casi nostri…la cantina rimase di nuovo vuota.

Nel 1990 il Comune lanciò un piano per il recupero del centro storico, concedendo facilitazioni a chi nel centro storico avesse aperto un locale pubblico. Cecco, che era proprietario di quella cantina inutilizzata e che da tempo accarezzava l'idea di aprire un bar nei carugi, coinvolse alcuni amici e si decise al grande passo. All'epoca abitavo in una casa il cui portone d'entrata era dirimpetto a quella cantina. Da essa, già durante quel lungo inverno, qualcuno aveva portato via qualche trattorata di letame, detriti e rumenta varia. Poi, all'inizio della primavera ‘91, a cura del maestro Vito da Orsomarso, iniziarono i lavori di restauro vero e proprio che si conclusero con i murales di Lella Calvini, bussanella, ispirati al Visconte Dimezzato.

In ultimo venne un fabbro ed incementò al muro esterno un'insegna, una parola in ferro battuto: Germinal. Un nome che, d'acchito, rievoca i fatti di Parigi del 1871, il romanzo di Zola, i primi esperimenti socialisti in Europa. Per restare in Italia, nel 1990, a Carrara, la ditta di costruzioni Caprice, grazie ad inciuci vari, ottiene l'autorizzazione a ristrutturare il palazzo Politeama, lo storico Germinal sede dell'anarchismo italiano. Al rifiuto di sloggiare dei legittimi occupanti, la polizia interviene in forze ed alla fine fa sgomberare. Cecco aveva partecipato, nella cittadina apuana, ad una manifestazione contro la forzata chiusura dello stabile. Quando si trattò di dare il nome al locale di via Gastaldi, si ricordò di quel palazzo carrarese e trasfondendone idealmente l'atmosfera e lo spirito che lo avevano caratterizzato, chiamò con lo stesso nome l'osteria che andava ad aprire i battenti.

Quattordici anni dopo, l'altro giorno, vado a cliccare su Mentelocale.it e leggo una delle scoppiettanti cronache ponentine di Choukadarian: quella su Giorgio Conte al Germinal. Una tradizione consolidata quella della musica dal vivo nel locale taggiasco: parola di ex dirimpettaio! Leggo con un sorriso ed un pizzico di nostalgia della performance dello chansonnier astigiano, del tocco di femminilità impresso al locale da Roberta ed Enrica che ora lo gestiscono e dei cervellotici ma squisiti exploit dello Squalo dietro ai fornelli, e penso che dopotutto quella del fondo di via Gastaldi è una storia da raccontare.

Dalle ceste di Menegò Buccalarga alle strofe di Giorgio Conte, l'epopea di un seminterrato che fa carriera e diventa prima un'osteria vissuta ed esuberante, poi nel corso degli anni si trasforma architettonicamente e cambia conduzione, acquisendo toni più soft ed indirizzo più spiccatamente gastronomico se vogliamo, ma mantenendo intatto lo spirito iniziale ed il suo ruolo di punto di riferimento per le vecchie e le nuove leve. E' una piccola saga ormai, il cui ultimo capitolo in ordine di tempo ci propone musica con la M maiuscola, i bocconi di saggezza elargiti da Danilo Musso e l'affascinante presenza, stando alle eloquenti descrizioni del cronista, delle due signore che architettano il tutto. Un romanzo la cui trama si sta ancora dipanando e di cui, quando capita, leggiamo molto volentieri una pagina direttamente in loco.

C'era un innamorato...

C'era un innamorato...
C'era un innamorato che amava senza speranza. Si ritirò del tutto nella propria anima e gli parve che il fuoco d'amore l'avrebbe consumato. Perdette il mondo, non vedeva più il cielo azzurro e il verde bosco, il torrente per lui non frusciava, l'arpa per lui non suonava, tutto era sprofondato e lui era caduto in miseria. Ma il suo amore cresceva, e lui avrebbe preferito morire e rovinarsi piuttosto che rinunciare al possesso della bella donna che amava. Sentì allora che il suo amore aveva bruciato in lui ogni altra cosa, e l'amore divenne potente e tirò e tirò, e la bella donna dovette obbedire, venne, e lui era lì a braccia aperte per attirarla a sé. Ma quando gli fu lì davanti si era del tutto trasformata, e con un brivido egli sentì e vide che aveva attirato a sé tutto il mondo perduto. Era davanti a lui e gli si arrendeva, cielo bosco e torrente, tutto gli veniva incontro in nuovi colori, fresco e splendido, gli apparteneva, parlava il suo linguaggio. E invece di conquistare soltanto una donna egli aveva tra le braccia il mondo intero, e ogni stella del cielo ardeva in lui e scintillava voluttà nella sua anima.
Aveva amato e amando aveva trovato se stesso.
Ma i più amano per perdersi.

(Sull'amore - H. Hesse - Mondadori 1988)

Thursday, September 2, 2010

Pulizie di primavera...

per cullarti un po', magica creatura,
canterò la tua voce rauca e profonda.
e ritrarrò il colore dei tuoi occhi
per stupirti con la loro aspra bellezza.
poi scriverò il pensiero tuo lieve
con l'inchiostro spesso che mi corre nelle vene.
per liberarti, infine, dalla gabbia
in cui proprio io, orbo ed imbelle, ti rinchiusi
creerò per te, per la tua fuga,
ampi ed ariosi sprazzi di universo.

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