Thursday, July 7, 2011

Livio

o delle nefaste decisioni che lo iodio, respirato in notevoli
quantitativi, induce nella mente di certi pescatori.

1


- Cosa fai stasera?
La domanda di Livio, quasi fosse telepatica, mi coglie proprio mentre sto cullando la mia mente con l’idea di un’ipotetico appuntamento con quella ragazza svedese che ho conosciuto ieri sera: una cascata di capelli castano scuro su due occhi verdi come smeraldi e un sorriso tanto ingenuo quanto invitante.
Siamo seduti ad un tavolo sulla terrazza del Manola e sorseggiamo un pastis sgranocchiando arachidi salate.
Il sole è ancora alto in cielo e il suo riverbero ferisce l’occhio nudo, ma l’afa del primo pomeriggio è ormai mitigata dalle prime leggere avvisaglie di brezza serale ponentina.
Ai tavoli vicini, protetti da ombrelloni multicolore che publicizzano una marca di gelati, le compagnie dei bagnanti in abiti più o meno succinti ci offrono, inconsapevoli, estemporanee scenette teatrali di rara intensità emotiva. Tra granite al limone e birre alla spina, flirt adolescenziali e pruriginosi sguardi extra-coniugali con conseguenti litigi, i racconti piccanti e le ricette di cucina, la Fiat 127 appena uscita o la Ducati Scrambler 450, la formazione del Milan, della Juve o dell’Inter e, in qualche caso, il governo ladro, i vacanzieri di massa consumano alla luce calda del sole d’agosto, a volte reiterandoli, gli stress accumulati in un inverno di nebbia padana.
Ripenso alla festa in pizzeria di ieri sera: una grande tavolata alla quale erano seduti, in rigoroso ordine di gradimento reciproco e di approfondimento della conoscenza, i più autorevoli componenti della legione dei cucadores della costa e le partecipanti scandinave ad una delle tante vacanze in Riviera offerte da un’agenzia turistica svedese. Non mi capacitavo di come io, che cucador non sono mai stato, fossi stato invitato, ma l’esuberante numero di presenze femminili ha subito chiarito i perché dell’ospitalità dimostratami.
Gli spaghetti allo scoglio e il Gavi ben freddo hanno il potere di creare atmosfere intriganti in un tempo relativamente breve ed è così che prima ancora che la mezzanotte fosse suonata, Ingrid, la mora con gli occhi verdi, ed io ci siamo ritrovati soli, seduti alla tavolata ormai deserta a parlare di noi.
C’è stato anche un’attimo in cui la conversazione ha assunto sfumature più pruriginose: è stato quando si è accennato al fuggi fuggi del dopocena degli altri invitati e a come,  presumibilmente, si stessero intrattenendo  in quel momento.
Non è successo niente tra noi, nessuno dei due ha forzato la situazione, ma lì, secondo me, a giudicare dallo sguardo che ci siamo dati, ci siamo concupiti un tantino! Più tardi lei, la voce resa calda dal vino, mi ha augurato sorridendo la buonanotte in italiano con un accento che sembrava uno swing di Nat King Cole, tanto mi è parso dolce. Mi ha poi sfiorato le labbra con un leggerissimo bacio ed è salita nella sua camera, senza accennare ad invitarmi.
Sono uscito dal locale e dolcemente mi sono fatto risucchiare dal flusso ormai rado dei passanti che dalla darsena alla torre saracena, in un instancabile andirivieni, ogni sera scrutano i volti della notte rivierasca alla ricerca di un’emozione da raccontare nelle future lunghe serate invernali fatte di nebbia uniforme oppure di quella gelida tramontana che spazzola le spiagge e fa ghiacciare i ranuncoli e gli anemoni coltivati in pienaria.
Ripensando alla serata, lentamente sul mio viso si è disteso un sorriso: c’era aria di promessa, frizzare di sentimenti, adrenalina, vita: mi sentivo bene!
E mi sento bene: la sensazione di benessere si protrae anche oggi e non faccio fatica ad ammettere che mi sento in pace col mondo!
- Stasera spero di vedere una persona - finalmente rispondo.
- Una donna – si informa il Livio con tono ammiccante.
- È svedese, si chiama Ingrid…ma è diversa dalle altre…- e gli lascio interpretare il mio silenzio.
Lui non interpreta, ha ben altro per la testa:
- Te l’ho chiesto perché volevo mettere a bagno la barca. Ieri ritornando dal mercato dei fiori mi hanno chiesto un po’ di pesce da porzione, sai i due soliti ristoranti. Ma mi servirebbe una mano.
- Vuoi uscire stasera e salpare i palamiti? Se il mistrale non scende al crepuscolo lo sai cosa fai, no?...balli la rumba tutta la notte.
- Scende, vedrai che scende. Poi domattina prendiamo il caffè, tolte le spese ci prendiamo un centone a testa e andiamo a casa a stirare la schiena e a prepararci per una nottata di vita sulla costa.
- Un centone a testa? A che santo ti sei  raccomandato per sperare di tirar sù in una notte, con i palamiti,  tutti stì naselli e stè orate? -
- A sant’Evinrude settanta cavalli! Santi, palamiti….- taglia corto e sorride vago. Poi tira giù un lungo sorso di anisetta ghiacciata.
L’offerta è allettante: lavoro solo d’inverno imballando fiori che finiscono sulla tavola delle famiglie di Francoforte, di Colonia, di Monaco di Baviera e centomila lire sull’unghia, in estate avanzata, dopo due mesi di disoccupazione e con altri due mesi di riposo forzato come prospettiva, sono buone come il pane!
Però nel frattempo è comparsa Ingrid! E a me, che una donna che mi sopporta non ce l’ho e che tengo ancora da conto l’emozione che si prova nel ricevere un sorriso che sa di promesse, la cosa non mi lascia certo indifferente.
Livio sembra leggere la mia indecisione:
- Dai vieni! Poi domani la inviti sulla spiaggetta di Punta Bellene:  pesce fresco sulla griglia, una bottiglia di Vermentino te la dò io e…migliore dichiarazione di così!
Da buon vecchio battitore della costa, non ha trascurato niente: intanto i soldi e poi la spiaggetta poco frequentata, il cibo, il vino, la complicità, l’intimità. Ha giocato le sue carte e sono tutte come a-tout di una belotte marsigliese giocata mentalmente.
Ed ha vinto!
- Va bene vengo! Però voglio le due orate più belle del mazzo.
- Se va come dico io, ti ci copro di orate…- ridacchia soddisfatto.
Beve in un sorso il resto del suo pastis e alzandosi si accomiata:
- Vado a preparare il brumezzo. Devo prendere anche un po’ di nafta: ci vediamo alle dieci alla darsena. Portati un’incerata.
Risale sulla millecento familiare sul cui portapacchi è assicurata una cesta da garofani sul cui fianco, con vernice rossa, ha scritto semplicemente “Livio” e riparte mollemente, come l’atmosfera di questo tardo pomeriggio d’agosto suggerisce.




2
Davanti ai miei occhi,  sul bagnasciuga, a non più di trenta metri, la venere scandinava gocciolante dopo il bagno rinfrescante pomeridiano, chiacchiera allegramente con la sua amica e in un paio di occasioni fà cenno nella mia direzione.
Il vento intanto, va via via rinforzandosi.
Alzo il bicchiere in segno di invito: dopo un breve conciliabolo, le due si salutano e Ingrid viene a sedersi al mio fianco.
Mi coglie imbarazzato, e il rossore sulle mie guance lo testimonia, a osservare la sua fresca e dirompente sensualità, celata a stento da un minuscolo bikini. Distolgo lo sguardo e con tutte le doti di nonchalance di cui sono in possesso cerco di svicolare da una situazione difficile da gestire.
- Che fai, mi guardi – mi chiede tra il divertito ed il lusingato.
- Scusami, Ingrid, ma…ma sei così bella! E’ difficile resistere. Del resto non sono l’unico ad ammirarti!
In effetti Mario, il veterano dei playboys della zona, dopo aver messo sul cavalletto il suo Vespino 50, è venuto a sedersi a un tavolo poco lontano, si è tolto il cappellino da nostromo e passandosi ripetutamente le dita a rastrello tra i capelli lunghi e lisci, senza ombra di imbarazzo ha preso ad osservarci fissamente. O per meglio dire, ad osservarla fissamente, come a voler ad ogni costo catturare il suo sguardo.
Lei non è indifferente e ogni tanto, di sottecchi, ricambia.
- Cosa pensavi di fare dopo cena - le chiedo introducendo così il discorso che mi sta a cuore di fare.
- Le ragazze vanno in compagnia per una passeggiata ed un gelato e poi qualcuno dei ragazzi ha proposto di continuare la serata al Menestrello e di concluderla con un bagno a mezzanotte, sotto la luna: very romantic! Vieni anche tu?
- Proprio di questo volevo parlarti. Mi hanno proposto una notte di pesca in barca. Vorrei andarci: mi piace e c’è qualche soldino da prendere.
- A pescare di notte? Su una barca? Che bello! Portami con te!
Comincio a sentirmi a disagio e lei ora mi incalza:
- Che vuoi che mi importi del gelato e della musica del Menestrello? Posso fare un’esperienza nuova, bellissima, veramente da raccontare: andare a pescare, di notte, sul Mediterraneo. E poi - conclude - possiamo stare insieme, no?
Ora sono in difficoltà! Anche perché dovrei spiegarti che in barca è un po’ dura, che bisogna sapersi muovere e fare la propria parte; che Livio, quando pesca, diventa un uomo intrattabile e che anche il minimo errore lo fa andare su tutte le furie; che neanche lontanamente si riesce a fargli accettare il pur minimo cambiamento di programma. Figuriamoci poi, con la testa che ha, una donna in barca: sacrilegio!
Dovrei raccontarti, mio insperato refrigerio in un tempo e in un luogo aridi di sentimento, di come sono combattuto nel decidere se in questo momento ho più bisogno dei soldi di Livio o delle tue tenerezze.
Ma taccio, almeno per un po’, e sorseggio il mio aperitivo.
Mario invece sorseggia una birra e continua a guardare. Io chino gli occhi ché giocoforza la mia decisione l’ho presa. Spero che essa non la faccia contrariare troppo.
- Ascolta, Ingrid, è lavoro! Ne ho bisogno! È solo per questa notte. Stasera puoi divertirti con la compagnia e ballare e fare il bagno notturno…
- Però tu non ci sarai - insiste lei.
- Lo so! Scusami, mi spiace di darti subito una delusione e poi non mi lusingare ché non è il caso.
Taccio un attimo e riprendo la mia arringa improponibile ma necessaria.
-  Domani noi rientriamo all’alba, prima che tu ti sia svegliata. Mi faccio prestare la Vespa da qualcuno e ti porto in una spiaggetta da favola, cuciniamo il pesce appena pescato, beviamo il bianco fresco, facciamo il bagno e stiamo tutto il giorno insieme, d’accordo?
Il suo abbraccio tenero, stempera subito l’impalpabile tensione che si stava creando.
Poi non so bene come accada, forse quel pizzico di eccitazione provocata dal suo seno turgido che sento premere contro il mio torace, ma mi ritrovo a baciarla con un certo trasporto: lei ricambia!
Ci sciogliamo dall’abbraccio coinvolgente: lei mi sorride ma poi, provocandomi una punta di gelosia che a stento maschero con un’espressione di indifferenza, si volta in direzione di Mario.
Lui, cappellino in testa, mette in moto il Vespino, sorride nella nostra direzione e se ne va.
- Vengo a prenderti alle dieci – dico con un pizzico di astio nella mia voce. Ma poi, l’emozione appena provata fa addolcire il mio tono:
- Grazie di quello che mi dai: ne ho bisogno, mi fa bene all’anima!
- Sei un tesoro – mi lusinga e sinuosamente torna in spiaggia dalla sua amica.


3

Livio aveva ragione: il mistrale, che al tramonto porta fragranze di oleandro misto all’odore del fritto di pesce dei ristoranti sul lungomare, è calato del tutto lasciando il posto ad una brezzolina che spira da sud. 
In darsena le facce sono quelle di sempre e i discorsi sono sempre gli stessi: il prezzo delle strelitzie e delle calle sul mercato, la barca da calafatare, la vendita delle acciughe sotto sale, la vigna del Vermentino, intercalati dalle solite amenità riguardanti l’emisfero femminile e da qualche battuta sulla DC e su Gimondi che quest’anno ha vinto il Tour de France.
Le lampare sono già uscite e sul pontile fervono gli ultimi preparativi di chi, con barche più piccole, salperà i palamiti o i cento metri di tremaglio e magari due o tre  nasse per aragoste.
Le coppie dei pescatori, perlopiù indissolubili, formate dal capobarca e dall’aiutante, si affrettano a caricare gli strumenti del mestiere ed i contenitori di plastica con il pastone per i pesci.
Visi segnati dalle rughe del tempo, iscuriti dal sole dell’estate passata all’aperto e da antichi retaggi saraceni. Mani callose che si muovono brusche ma con precisione millimetrica per compiere gesti mai inutili e brevi frasi  puntualizzate quando da scoppi di risa, quando da blasfeme invocazioni.
Minetto esce con lo Squalo, Turi con il Postino, Fabio con il Patreternu e Livio con me. Ci sono anche, sul pontile dei ricchi, Andrea U Capu con Sabrina e Ciccin u funtané che portano a Bastia, a pagamento, il sedici metri di un qualche industrialotto brianzolo e, più isolato, un fustaccio dalla parlata nordica in compagnia di Armandino: vanno per una romantica escursione notturna a bordo della pilotina di quest’ultimo.
Livio accende il quadro, la rice-trasmittente, e fa scaldare le candelette del diesel: trenta secondi e il suono sordo del motore attutito dall’acqua gorgogliante dello scarico, riempie le nostre orecchie. Stacco la gomena dall’ormeggio, la arrotolo e l’appendo ad un gancio a prua. Il mio capobarca accende una sigaretta, manovra per liberarsi dell’abbraccio laterale di altre due imbarcazioni ed esce molto lentamente dall’intrico di natanti cullati dalle piccole onde che provochiamo al nostro passaggio.
Quando è al largo del pontile, volta la prua a sud e mette la leva del cambio in folle:
- Sono le undici e un quarto: io mi butto giù un’oretta ché sono in piedi da stamattina alle quattro. Tieni il timone così fino al molo grande e lì girati a levante. Il posto è tra campanile e campanile, due miglia e mezzo al largo. Lì c’è una “secca”, non più di trenta metri d’acqua. Non puoi sbagliarti: quando cominci a vedere il faro di Antibes, ci vogliono ancora una ventina di minuti per arrivarci. Poi chiamami! Occhi aperti, neh!  
Si sdraia su di un materassino di gommapiuma, si copre con una coperta sdrucita che odora forte di salsedine  e nel giro di cinque minuti russa rumorosamente.
Intanto sono giunto al molo: i due campanili sono già in vista e svettano sulle luci dei bar del lungomare. Sulla spiaggia, la baracca del Porcaro, rostelle e anguria a buon mercato, è come sempre affollata e la mia vista, partendo da quel punto luminoso, si allarga fino ad abbracciare l’oscurità delle colline sovrastanti e delle prime pendici del monte Faudo, si spinge oltre rincorrendo i primi crinali dell’anti-Appennino e infine, grazie ad una serata miracolosamente limpida, si posa sulla cima antracite del Saccarello che buca il cielo nero punteggiato di stelle.
Che bello che sei, visto dal largo, lembo di sabbia sovrastato dai monti: casa!
Cosa ci spinge, ora che la fame e solo più un racconto dei nostri vecchi, a lasciarti per andare alla ricerca di ciò che tu, nei tuoi modi e con i tuoi tempi, ci stai già offrendo?
Se solo ci accorgessimo del tuo dono! Se solo, quando ce ne accorgiamo, fossimo capaci di apprezzarlo! Solo quando la realtà della tua mancanza diventa così dolorosamente acuta da suggerire ai nostri sensi l’odore del pesto appena fatto, il gusto del Vermentino nuovo, la vista delle terrazze sostenute dai muri in pietra a secco e punteggiate dal grigio e verde cangiante degli ulivi o dall’oro delle mimose a febbraio, le voci dei mercati del pesce, la carezza data ad un viso dalla pelle vellutata da cui spiccano due occhi scuri, mediterranei, profondi da perdercisi, ecco, solo allora, quando ormai è tardi ed il danno è stato fatto, solo allora arriviamo a capire.
Ormai le luci dei locali si sono fuse tra di loro creando una lunga striscia luminosa che ad intervalli regolari sembra venir inghiottita dall’accavallarsi ritmico e dolce dell’onda lunga. Poco più a monte, i fari delle auto sull’Aurelia, sciabolano nella notte frugando nell’oscurità. 
Malgrado sia rimasto per qualche tempo distratto dal dipinto che andava via via ingrandendosi davanti ai miei occhi, ho più o meno mantenuto la rotta giusta: correggo appena e poi blocco con una cimetta la ruota del timone ed accendo una sigaretta. L’aria comincia a rinfrescarsi: meglio indossare l’incerata.
Lontano, le luci delle lampare danno il senso dell’attività febbrile che su di esse si sta svolgendo ma io ho ancora tempo prima che venga il mio turno di faticare: mi rilasso e mi guardo attorno. A poppa noto con un certo stupore un motore furibordo di grosse dimensioni: è un Evinrude da settanta cavalli! Ripenso ad oggi pomeriggio, alla battuta scherzosa del mio capo, quella del santo protettore.
Strano! Il gozzo è un nove metri con un motore entrobordo diesel più che sufficiente per il tipo di pesca che facciamo noi, con l’optional di un verricello per salpare le reti e abbastanza spazio per sistemarci due vasche contenenti centro metri di palamite ognuna e quattro grandi nasse per aragoste. Cosa se ne farà di un settanta cavalli fuoribordo?
Un fischio forte e prolungato, mi obbliga ad aguzzare la vista davanti a me. Sento delle voci e vedo la luce di una torcia elettrica sventolare ad indicare la mia sinistra: levante! Rallento al minimo e correggo di qualche grado ad est: hanno già steso il tremaglio e mi stanno avvertendo. Poco dopo, infatti, scorgo il galleggiante, un pallone ovale arancione fosforescente, che evito accuratamente costeggiando largo.
Che strano: mentre manovravo ho avuto la netta sensazione che Livio mi stesse osservando. Mi volto ma lui, pur essendosi girato sull’altro fianco, continua a ronfare!
Il mare è appena increspato e la brezza aiuta a stare svegli e impedisce alla mente di perdersi in quell’oscurità rotta solo dalle luci di posizione del natante e dalla luna che ha disegnato sull’acqua un sentiero luminoso punteggiato da miliardi di lucciole riflesse sul mare.
Sulla terraferma, gli abitati più grandi, San Remo, Ventimiglia e poi, più ad ovest,  Montecarlo e  Nizza, sono ormai solo degli agglomerati luminosi che si staccano dall’oscurità.
Lontano a ponente, finalmente scorgo lo sciabolare del faro di Antibes: ci siamo quasi. Accendo un’altra sigaretta e con l’aiuto della pila portatile controllo l’ora: mezzanotte e venti.
L’aspettativa per la prossima attività e il briciolo di eccitazione che ne deriva mi fanno compagnia per l’ultimo tratto. Alle dodici e quaranta in punto, metto il motore al minimo e quando sono ormai quasi fermo, tiro la leva del cambio in folle, prendo il binocolo e controllo la posizione scrutando la riva: attraverso le lenti mi appaiono le cime dei campanili e ad occhio e croce sono proprio a metà tra di esse.
- Livio, ci siamo! Liviooo...-
- Oh, cosa c’è, dove siamo?
- Dai svegliati: ho visto le luci del faro venti minuti fa e sono tra campanile e campanile: siamo arrivati.
- Ah bene – grugnisce e buttata la coperta incrostata di sale da una parte si alza sulle ginocchia, apre lo sportello  del pozzetto di prua ed inizia ad armeggiare con un fornello da campeggio ed una moka da sei tazzine.
Ben presto l’aroma del caffè riempie le mie narici ed accetto con intima soddisfazione la tazza colma della bevanda calda e ben zuccherata che lui mi porge.
Poi c’è il rito della sigaretta che fumiamo rigorosamente in silenzio usi, come siamo, a quell’abitudine tipicamente marinara, ma non solo, per cui risulta inutile far delle parole quando esse non sono necessarie.
Adesso bisogna brumezzare: indossiamo guanti di gomma e pescando a piene mani dai grossi contenitori di plastica, iniziamo a lanciare grosse porzioni di pastone appositamente preparato con gli avanzi del pranzo di un qualche ristorante della zona, per attrarre la fauna ittica dei dintorni.
In venti minuti, mentre la barca si muove lentamente, abbiamo svuotato i due grossi secchi: adesso bisogna dare ai pesci il tempo di “annusare” il lauto pasto e di radunarsi nei pressi dello scafo.
C’è tempo per rilassarci altri dieci minuti e fumarne un’altra prima di iniziare il lavoro vero e proprio: mettere a bagno il palamite.
Ora Livio inizierà a svolgere il cavetto da cui pendono decine e decine di lenze alla cui estremità sono fissati i grossi ami, ognuno con un’acciuga per esca, e lo immergerà in acqua mentre io, facendo il percorso a ritroso, manovrerò il timone per far procedere la barca a zig-zag, il motore al minimo, disegnando segmenti di circa dieci metri l’uno. Noto però con un certo stupore che dopo aver anche lui indossato l’incerata, invece di approssimarsi al contenitore del palamite, servendosi del binocolo scruta l’orizzonte a 360 gradi e infine si dirige verso il fondo della barca, apre lo sportello che chiude il pozzetto di poppa e ne estrae una scatola metallica di forma rettangolare.
La apre e tira fuori un involucro di carta stagnola e cellophane delle dimensioni di un pacchetto di sigarette, che inizia ad avvolgere con nastro isolante da elettricista. Dall’involucro escono due cavetti elettrici arrotolati.
- Cos’è?
- Niente domande: fammi lavorare! Adesso butto la “saponetta” e mentre svolgo i fili tu metti giù subito la boa bianca e poi manovra piano per allontanarti. Non più di cento metri, poi fermati e spegni anche il motore: hai capito bene?
- Si ho capito ma…cos’è la saponetta?
Mi guarda, sorride sardonico e naturalmente non mi risponde. Sento il mio cuore che comincia ad accellerare il suo battito mentre riaffiorano alla mia mente certi racconti di pesche miracolose dove però l’unico miracolo era tutt’altro che un fenomeno metafisico: piccoli quantitativi di gelatina provenienti dal deposito degli esplosivi utilizzati per spianare il tracciato dell’autostrada in costruzione, in cambio di qualche chilo di pescato molto gradito dagli artificieri.
Ho sempre dato a certe affermazioni la valenza di spacconate buttate lì tanto per attirare l’attenzione, magari ispirate da qualche gotto di Nostralino di troppo e da un’abbondante porzione di cinghiale in salmì. Ma qui lui fa sul serio e siamo sul suo guzzo, a due miglia e mezzo dalla riva: cosa faccio, mi butto e torno a nuoto?
- Livio non fare belinate! Perché mi hai portato fuori? Perché non me l’hai detto subito?
- Se avessi voluto, l’avresti capito da solo! E io pensavo che avessi capito, quando ho detto sant’Evinrude settanta cavalli! Ma tu pensavi alla svedese. Ora fai il moralista. Dai non rompere le balle: mezz’ora ed è tutto finito! Tiriamo sù stá quintalata di pesce e ce ne andiamo a dormire. Alle tre siamo a letto!
- Ma che moralista e moralista, Livio: qui se passa una vedetta della Finanza ci sbattono dentro.
Cattura con il suo il mio sguardo e lo accompagna, sorridendo con aria di sfida, a poppa, in direzione del potente motore fuoribordo e sibila:
- Non ti preoccupare!
Questione di secondi; poi, senza darmi neanche il tempo di replicare appoggia delicatamente in acqua l’involucro impermeabilizzato e facendo ben attenzione a non perdere la presa sui cavetti elettrici, lo lascia scivolare verso il fondo.
Non so cosa fare e allora non faccio niente! Resto lì immobile, esterefatto, con la bocca e la gola secche: si direbbe proprio paura!
Livio mi aggredisce, rude:
- Muovi stá barca! A ballare ci vado domani sera e la doccia me la voglio fare a casa, non qui.
Le mani mi tremano leggermente mentre prendo la cima alle cui estremità sono fissate un’ancoretta da dieci chili ed il pallone ovale bianco.
Posiziono la boa e rimetto in moto il diesel: sposto la leva del cambio sulla prima tacca della posizione “Avanti” e manovro il timone come mi è stato detto.
La barca si allontana lentamente dalla boa mentre Livio srotola con estrema precisione ma sveltamente i due fili elettrici.
- Basta così, fermati! Spegni il motore, fumatene una e stai zitto!
Le estremità dei fili sono ora visibili: il capobarca li fissa allo scalmo assicurandole con un paio di gasse d’amante. Poi si muove velocemente verso il pozzetto di poppa, apre lo sportello e ne estrae una batteria di automobile.
Fissa alle estremità ramate dei fili, due anelli metallici che si indovinano della stessa circonferenza dei due poli metallici della batteria. Slega i due cavetti dallo scalmo e li tira con forza verso di se recuperandone cosí un paio di metri: il tempo che la corrente impiegherà a risucchiarli verso il fondo è quello che Livio ha a disposizione per infilare i due anelli sui poli negativo e positivo della fonte di energia.
E’ veloce e preciso: qualche secondo per avvicinare i cavetti alla Magnetti Marelli, un paio di scintille, ed è cosa fatta.
Non succede nulla! Livio non si scompone, mentre io, pur prevedendo la valanga di bestemmie che sarei costretto a sorbirmi se l’aggeggio non funzionasse, comincio intimamente a sperare in un fiasco.
Ma è un’illusione breve! Tempo tre o quattro secondi e l’acqua intorno alla boa comincia a ribollire e poi vedo esplodere in aria, proprio dove la saponetta di esplosivo è stata calata,  una  colonna di schiuma alta almeno cinque metri: ha funzionato!
- Dai riporta la barca là – mi urla Livio mentre sposta freneticamente e con forza le vasche dei palamiti e le nasse, tira sù dal fondo della barca due “cucchiai” di rete a maglia media e me ne passa uno.
Rimetto in moto e in un attimo sono di nuovo nei pressi della boa. I pesci intanto cominciano a venire a galla ed in me la paura fa salire la frenesia di finire celermente il lavoro ed andare via al più presto. Comincio a manovrare con il retino tirando a bordo tutto quello che galleggia: naselli e orate soprattutto, ma anche aguglie, triglie, qualche branzino, due  verdoni da un chilo ciascuno e addirittura una piccola cernia. Sull’altro lato anche Livio lavora con foga e continua a salpare pesci di ogni foggia e dimensione facendoli volare direttamente nella vasca posta al centro dell’imbarcazione. Ogni tanto si interrompe per dare un colpo di remi così da far muovere il guzzo.
La vasca è ormai stracolma ed il pesce comincia a scivolare sul fondo della barca ma continuiamo a “pescare” fino a che vediamo sagome argentate galleggiare. Il silenzio è rotto solo dal nostro affannoso respirare e dal lieve sciabordare dell’acqua sulle fiancate. Rallentiamo via via il nostro ritmo e la preoccupazione, che era stata attenuata dalla frenetica attività, riprende a stringere in un morso le mie membra, ora che anche la fatica comincia a farsi sentire.
Il fondo della barca è tutto un guizzare e bisogna stare attenti a non mettere i piedi nel punto sbagliato se non si vuole rischiare di finire a bagno. 
- Basta così! E’ andata bene. Dai andiamo a salpare la boa e filiamo.
Metto ancora una volta in moto, faccio girare la prua verso l’indicatore galleggiante e dò un po’ di gas: l’ansia ora sale e anche in Livio percepisco, dai suoi gesti nervosi, la fretta di cambiare aria.
Sono ormai a non più di trenta metri dalla boa quando tutti e due sentiamo distintamente il rombo di un motore avvicinarsi velocemente e subito dopo il fischio breve ma inconfondibile di una sirena e una voce nasale che esce da un megafono:
- Guardia di Finanza! Accostiamo!
Livio cambia espressione:
- Cristu! Spegni, presto! Buttati giù sul fondo e reggiti forte che ora si balla davvero.
Agguanta la batteria e con un balzo è a poppa, collega i cavi che fuoriescono dall’Evinrude ai due poli metallici ed afferrata la maniglia del cavetto di accensione, tira con tutta la sua forza: niente!
- Stiamo accostando, Guardia di Finanza - ripete la voce nasale.
Livio ora è frenetico: strattona con veemenza il cavo accompagnando i suoi sforzi con colorite quanto irripetibili bestemmie.
Quando il natante delle Fiamme Gialle è ormai abbastanza vicino da poter scorgere sul ponte di poppa le sagome dei militari, dopo l’ennesimo strappo finalmente il fuoribordo si mette in moto con un rombo assordante.
- Tieniti forte – ripete ancora con decisione. Poi da improvvisamente gas e la barca, via via che lui accellera, assume una posizione inclinata con la prua in alto e lo scafo che tocca la superficie del mare con la sola parte posteriore dove attraverso l’elica, il potente motore scarica in acqua tutti i suoi settanta cavalli.
Sono sdraiato nella sentina, su di un letto di pesci ancora guizzanti, i piedi puntellati a due stecche dell’ossatura della barca e le mani serrate ai ganci d’alloggiamento interno dei remi. La vasca dei palamiti si è rovesciata su un fianco spargendo ovunque il pescato e l’attrezzatura per la pesca. Ad ogni sobbalzo, le punture degli ami e delle spine dorsali dei pesci che guizzano per sfuggire alla morte, non aiutano certo ad attenuare in me la paura per le conseguenze del gesto da noi appena compiuto, se la nostra folle corsa sul mare non dovesse sottrarci ai nostri inseguitori.
Di fronte ai miei occhi l’immagine luciferina di Livio, gli occhi sbarrati nell’oscurità ad evitare eventuali ostacoli ed alla ricerca di una via di fuga, l’espressione indecifrabile del viso rischiarato dalla luna e la tensione che si indovina nella rigidità delle braccia che stringono, una la barra del timone, l’altra un qualche appiglio che lo aiuti a non essere sbalzato fuori dall’imbarcazione.
Più indietro, quando il guzzo spinto dal pulsante motore salta sulle onde, si intravede la sagoma della motovedetta che ci insegue.
Livio cambia spesso traiettoria ed ogni cambio di direzione è accompagnato dai sinistri cigolii del fasciame: lo scafo non gradisce certe sollecitazioni!
Ma la barca, costruita nei cantieri di Sestri Levante, è forte ed è con un certo sollievo che tra un salto e l’altro, constato che stiamo aumentando il vantaggio sui nostri inseguitori.
In quella situazione, il tempo sembra non scorrere: dieci minuti, quindici, forse più prima di provare la sensazione netta e liberatoria della barca che riprende lentamente ma inequivocabilmente la posizione orizzontale.
Il rombo del motore scende d’intensità abbastanza da permettermi di udire la voce rauca del mio compagno di navigazione:
- Ci hanno persi! Per stavolta è andata bene!
- Per stavolta? Non ci saranno altre volte con me a bordo, Livio. Non rischio cosí per guadagnarmi da vivere!
- Va bene, d’accordo, me l’hai già detto! Ormai è fatta e considerando tutto, ci è andata di lusso: non ci hanno presi e la barca è a posto, non abbiamo perso i pesci e quindi abbiamo guadagnato. L’unico danno subito è la perdita della boa, ma se penso a come poteva finire…! E poi dai, domani vai in spiaggia con la moretta - sorride ironico.
Segue un silenzio esasperante che dura qualche minuto, poi lui riprende, nuovamente serio:
- Comunque mi raccomando: acqua in bocca, neh, discrezione - conclude voltandosi verso nord, verso la foce del fiume, verso l’approdo.
Inutile insistere! Livio rallenta del tutto ed infine spegne il fuoribordo. Rimette in moto il diesel ed ho ancora il tempo per ricompormi un po’ prima che l’imbarcazione, a velocità minima, punti l’ingresso della darsena e il pontile deserto.
Dopo aver ormeggiato e raccolto le mie cose, tiro la cima ed avvicino la barca alla struttura di legno e con un balzo sono sù di essa.
Stanotte non troviamo parole per salutarci: Livio estrae da una tasca il suo portafogli e mi porge le centomila lire pattuite. Poi si china verso un secchio lì dappresso, tira sù un paio di orate belle, mezzo chilo l’una, le pulisce, le squama, le avvolge in un paio di fogli ingialliti di un vecchio numero del Secolo XIX  e me le porge. Infine va verso la Millecento, apre il portellone posteriore e da una cassetta di legno prende due bottiglie di vino bianco e mi da anche quelle. La scena avviene in totale silenzio ed infine Livio si accomiata da me con uno sguardo di traverso e una semplice pacca sulla spalla.
Io lo guardo per l’ultima volta e poi, crollando il capo in un’ultimo cenno di incredulità, mi volto e mi avvio lentamente verso casa.


4

Il sole è già alto e comincia a fare caldo: saranno già le dieci! Passo prima alla posta a versare le centomila lire, poi faccio un salto al bar a cercare qualcuno che mi presti una Vespa. Gigino è disponibile alla bisogna ma prima dobbiamo andare a prendere la sua Cinquecento, sennò è a piedi, e poi potrò prendere lo scooter.
Alle dieci e mezza, alzo sul cavalletto il motociclo nello spazio tra due auto posteggiate e mi dirigo verso il portone dell’edificio dove so che abitano le svedesi. 
Poco lontano, infatti, un gruppo di giovani donne dai tratti somatici e dal colore dei capelli tipicamente scandinavi, conversano affabilmente arricchendo la loro eloquenza nordica con scoppi di risa e brevi frasi, anche salaci, riportate in uno stentato italiano.
Mi avvicino, mi scuso per l’interruzione e chiedo di Ingrid. Si consultano un attimo poi una di loro chiede maggiori dettagli: ci sono cinque Ingrid nella comitiva! Due fanno parte del gruppetto lí presente e me le indica e delle tre rimanenti, due sono bionde, più alte di me mentre l’altra è castana, ha la mia statura e gli occhi verdi: qual’è quella che cerco io?  
Lo capiscono da sole: quando hanno descritto lei, devo aver cambiato espressione. Ridacchiano ora e fanno cenni verso i piani superiori scandendo a più riprese quello che dev’essere il cognome della donna che cerco. Ad un tratto una di loro se ne esce in una frase che provoca in tutte le altre una risata: il tono è ammiccante, quasi sferzante, la reazione unanime è ilare. Un’ilarità in cui però colgo un pizzico di sarcasmo, peraltro sfumato da una non giustificata tenerezza che le ragazze, con leggeri sorrisi e con un paio di buffetti, sfoderano nei miei confronti.
L’informazione che ricevo - la camera di Ingrid è la numero 18 - cancella le mie perplessità e dopo aver ringraziato, mi avvio con il passo leggero, il battito cardiaco già leggermente accellerato e la salivazione in netto calo, verso il portone della palazzina “D”. Ho con me i pesci, il vino e un mazzetto Primavera che la Rinuccia mi ha passato sottobanco al magazzino presso il quale, in inverno, anch’io lavoro.
Sono sei appartementi per ogni piano, quindi devo salire al terzo, l’ultimo. Dopo l’ultima rampa di scale, mi fermo un attimo a riprendere fiato ed a leggere un cartellino in bachelite dorata che indica a sinistra i numeri dispari, a destra quelli pari. Le voci degli occupanti delle camere giungono chiare alle mie orecchie mentre mi avvio nel corridoio sempre più emozionato ma al contempo impaziente di bussare a quella porta.
E finalmente eccomici di fronte: dall’interno nessun rumore.
Busso due colpi discreti e attendo col cuore in gola: non ottengo risposta. Che fare? Una ridda di pensieri si scatenano inarrestabili nella mia mente: devo bussare nuovamente? E se dorme ancora? Non vorrei disturbarla, contrariarla in qualche modo, privarla di un inizio di giornata a lei congeniale.
Devo però fare i conti con la mia impazienza e decido che in fondo un’altro colpetto alla porta, magari leggermente più deciso di quello precedente, non può essere preso alla stregua di una scortesia.
Alzo quindi il mio braccio per ripetere il gesto di picchiare le mie nocche sul legno, quando un lieve lamento soffocato e un’esplicito “piantala, stupida: credevi fossi salito in camera a recitarti i versi di Shakespeare” mi gela il cuore in una morsa di incredulità e di amarezza che in un attimo si cambiano in rabbia.
Istintivamente tendo il braccio all’indietro per dare un pugno alla porta e poi, dopo essermi sfogato, posare a terra il vino, i pesci ed i fiori e ritornare in fretta sui miei passi. Ma non faccio in tempo: la porta si apre e Mario, proprio lui, il veterano dei cucadores, indossando il suo berrettino da nostromo, fa cenno di voler uscire dalla camera.
Dietro di lui, in mezzo alla stanza immersa ancora nella penombra, un grande letto disfatto al cui centro vedo lei, Ingrid, in lacrime, i capelli scarmigliati e sul viso i segni di una notte movimentata.
La scruto con sguardo interrogativo, alla ricerca di un perché, ma lei china gli occhi a terra e se si eccettuano l’espressione amara comparsa sul suo viso vedendomi e un lungo, penoso sospiro che le sfugge con un soffio di voce, non da altri cenni di reazione.
Mario intanto si è creato un varco tra lo stipite e me e si sta allontanando nel corridoio. Quando è ormai giunto agli scalini della prima rampa, si volta nella mia direzione e dice con tono consolatorio:
- Non te la prendere più di tanto! Anzi, per te che sei uno dalla cotta facile, forse è meglio così! Siamo andati al Menestrello, abbiamo ballato due lenti, l’ho fatta bere un po’ e poi sono salito ad accompagnarla ché a lei girava un po’ la testa. Prima di lasciare il locale ha chiesto di te un paio di volte, ma tu eri andato fuori in barca - conclude con tono auto-assolutorio.
 La mia totale mancanza di reazione lo agevola e lo rende spavaldo, perché infine, iniziando a scendere le scale, alza di un’ottava il tono della voce e sarcastico mi chiede:
- Fatta buona pesca?      


Fine

 

 

Danilo Sidari - 2006

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