Wednesday, July 6, 2011

Il falò di S. Benedetto


1
Bedè u brütu scrutava con aria serena il nitido tramonto. Seduto sul gradino lastricato d’ardesia cotta dal sole di generazioni, aspirava con evidente soddisfazione il fumo della sua sigaretta di trinciato forte, precedentemente arrotolata tra le grosse e callose dita.
Le fresche raffiche di grecale che soffiavano da nord-est, increspavano le onde e spazzolavano le spiagge deserte giù alla marina prima d’arrampicarsi per i valloni delle Perriane e di S. Lucia frustando le cime degli ulivi. Fascia (1) dopo fascia, seguivano il profilo della collina,  partendo dalle rovine del castello di Taggia, su fino alla Zotta, oltre la fontana dell’Albareo e infine, raggiunta la sommità della costa, declinavano verso Beuzi e il fondovalle Armea.
Il vento portava con sé fragranze di mare, frammiste all’odore della terra appena magagliata (2). Qualche fascia più a valle, i tordi volavano da un ramo all’altro, alla ricerca di qualche oliva dimenticata e mentre il sole si coricava a ponente, dietro il promontorio di Cap Ferrat, incendiando il cielo di rosso, Bedè, in silenzio, ascoltava dentro di sé la soddisfazione dell’uomo operoso che è a buon punto nel suo lavoro.
Il raccolto delle olive era stato abbondante e la frangitura aveva dato una buona resa; la campagna era tutta magagliata e la terra era pronta alla semina che, in pochi mesi, avrebbe dato i suoi frutti. I maxéi, gli antichi muri di contenimento in pietra a secco, che erano serviti a terrazzare le alture prospicienti Taggia e un po’ tutto l’entroterra ligure, erano solidi e ritti; la vigna cominciava a vegetare e le piante d’olivo erano quasi tutte potate e concimate. Aveva piantato mezzo quintale di patate da semina, in ordinati solchi, nelle due fasce dietro la vasca d'irrigazione e...
Il nitrito di Frida che giù nella stalla reclamava biada, interruppe i suoi pensieri: si alzò lentamente e stirandosi la schiena stanca, si accinse a preparare la razione serale di cibo per tutti gli animali.  Era a metà della piccola e tortuosa scala, tagliata nel maxé, che scendeva alla stalla, quando vide salire dalla mulattiera Gianni u Castelin. Aveva il passo spedito e un sorriso ironico illuminava il viso contornato dai lunghi capelli lisci e folti.
 - Ti séi muntàu a-agiutame, gàina? (3) chiese sfottendo Bedè e ridendo gli porse un bicchiere di nostralino.
- A l’amu truvàu u camiun - esclamò Gianni - nui a sému prunti a partì pè andà in Piemunte a caregà e legne p’ù faö: tu ch’ò ti fai, ti vegni? (4)
Dopo alcune vane ricerche, finalmente il camion per trasportare il legname era stato trovato e sarebbero partiti subito per Garessio dove, l’indomani all’alba, avrebbero caricato i tronchi già tagliati e accatastati, lasciati lì sul ciglio della strada dalle squadre della Forestale, dopo l’ultima pulizia del bosco. I tronchi e le fascine sarebbero serviti, ritornati a Taggia, per preparare i falò da bruciare in onore di S. Benedetto, patrono del paese.

                                                   
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Nel febbraio del 1626 le truppe franco-savoiarde d’invasione, lasciano Taggia senza arrecare alcun danno alle persone ed alle cose dopo “soli” tre mesi di invasione.
Il Podestà, gli anziani ed il popolo taggiasco onorano il voto fatto qualche mese prima a S. Benedetto Revelli (826-900), patrono del borgo, perché questi intercedesse presso l’Altissimo affinché loro e le loro cose fossero salve. Oltre alla solenne processione votiva, nelle ore notturne vengono accesi grandi falò in ogni rione del borgo medievale (B. Boeri “Taggia e la sua podesteria” vol. 1)
                                       
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2 Benedetto, detto Bedè, pregustò l’atmosfera che andava creandosi: avrebbero incontrato gli amici di Garessio e lui avrebbe rivisto Giovanna dopo parecchio tempo. Il mattino successivo, dopo aver caricato il legname, avrebbero fatto ritorno a Taggia per sistemare i tronchi in un’enorme pira che, col far della notte, sarebbe stata data alle fiamme.
L’allegria della festa avrebbe pervaso tutto il paese e tutti ne sarebbero stati contagiati.
Si affrettò, con l’aiuto di Castelin, a cibare le galline, i conigli, le capre e la cavalla e dopo aver riparato nella stalla tutte le bestie, i due amici si avviarono giù per il viottolo che in mezz’ora di cammino, li avrebbe portati in paese.
Quando vi giunsero, fecero una breve sosta da Vivado per gustare i marunzin al cioccolato che la Pina aveva appena sfornato e subito proseguirono verso il bar di Tunin dove il resto della compagnia li stava aspettando per muoversi.
Le botteghe del Pantan esponevano la loro merce sopra banchetti sistemati al riparo dei portici e la via era abbastanza popolata a quell’ora. Qua e là, si formavano capannelli di persone  e dai bar echeggiavano le risate degli avventori e la musica. Lo scoppio di un petardo interrompeva, ogni tanto, il quieto trambusto paesano da cui traspariva però l’eccitazione per l’imminente evento festivo. Nell’osteria l’atmosfera era già abbastanza calda: Alessio suonava alla chitarra il solito pezzo di Guccini e Tunin, l’oste, cantava! Nello, Gary, Pasquale Patreternu, Minetto, Danilo lo squalo, Gigino, Banano e Silvano Levaive, erano impegnati in un diverbio ad altissimi toni, sul come cucinare la murena: qualcuno diceva in umido, qualcun’altro al forno.
Milena e Nadia, le figlie di Tunin, mescevano il nostralino e contemporaneamente, mentre badavano ai bambini, servivano la cena agli abituali clienti: Pietro l’impresario, Gabriele, Maria a Ghega, la vecchia Giuanina Bracco con il figlio Dino e l’ex ballerina d’avanspettacolo, ora in pensione, signorina Patti. Ad un tavolo appartato sedevano Guerino il camionista e Nini Panzironi mentre in cucina, la Rina aggiungeva una foglia d’alloro allo stufato di stoccafisso con patate e olive cucinato a-a baucögna (5).
Bedè, che era un ottimo cuoco, mise tutti d’accordo asserendo che la murena andava cotta allo spiedo e dopo aver chiamato il suo giro di rosso, si rivolse nuovamente agli altri dicendo:
- Sciù a Gaèsciu i n’aspèita: a l’è meju ca se bugéme! (6).
- Eh, l’amore… - sentenziò Pasquale con sottinteso lasciando la frase in sospeso.
Le risate salirono di tono e i bicchieri tintinnarono mentre Bedè, che era il musone del gruppo, mugugnava (7) qualcosa di incomprensibile.
Tutti vuotarono il loro bicchiere e dopo aver salutato, sei di loro si mossero verso l’uscita. Bedè salì sul Tigrotto di Guerino mentre Alessio faceva accomodare sulla sua scassata utilitaria, Nello, Pasquale e Gianni Castelin.  Giunti ad Arma incrociarono l’Aurelia al bivio Rossat e presero a levante, verso Imperia: alla loro sinistra intravedevano nell’oscurità le serre dei garofani e delle rose destinati al mercato di S. Remo. Alla loro destra, la ferrovia correva parallela alla nazionale che stavano percorrendo verso est.
Sulla scogliera sottostante si infrangevano le onde di cui, alla luce bianca della luna, si intravedevano le creste spumeggianti. L’aria notturna di febbraio era ancora fredda ed il cielo era stellato. L’eccitazione infine prevalse e gli occupanti dell’automobile improvvisarono un coro sguaiato sul motivo di Genova per noi di Conte.
Sul camion invece, la conversazione tra Bedè e Guerino spaziava dai funghi porcini alla caccia al cinghiale, dalla coltivazione dello sprengeri (8), ai pronostici sull’ordine d’arrivo alla Milano-S. Remo che si sarebbe corsa il mese successivo.
Giunti a Oneglia svoltarono a monte sulla Statale 28 del Col di Nava e dopo i primi chilometri di falsopiano, superato Pontedassio, la salita si fece più ripida. Le case si fecero sempre più rare e al loro posto la vegetazione s’infittì. I raggi lunari che penetravano in quella massa oscura che scorreva sotto i loro occhi, offrivano loro lampi e sprazzi surreali di rara suggestione.
Giunti in cima al Colle S. Bartolomeo, una lunga serie di curve in discesa li riportò a fondovalle. Oltrepassato il ponte sul torrente Arroscia, entrarono nell’abitato di Pieve di Teco: gli ultimi passanti si affrettavano verso casa dove il caldo della stufa a legna e degli affetti familiari li attendeva. Nello e Pasquale, ammiccando, iniziarono a criticare Alessio per il suo modo di affrontare le curve e il Castelin, sorridendo alla burla, pensava che presto anche loro si sarebbero seduti al caldo, ad una tavola imbandita, in compagnia degli amici e questo pensiero suscitò in lui una piacevole sensazione di benessere.
Lasciate dietro di sé le luci di Pieve, la statale s’inerpicava ripida tra castagneti ed abetaie e dopo i piccoli abitati di Pornassio e Case Rosse, con un’ultima rampa giungeva a Nava, in cima al colle.
Attraversarono il centro turistico a quell’ora ormai deserto: dai finestrini della vecchia utilitaria, s’intravvedevano le luci delle case e di un paio di bar  dove qualche avventore si era attardato.  
Superarono lo spartiacque ed affrontarono la rapida discesa che li portò a Ponte di Nava; dopo vennero le luci di  Cantarana e dopo alcuni chilometri di curve in leggera discesa, quelle di Ormea, che oltrepassarono velocemente. La luna infine illuminò i primi rettilinei d’asfalto: erano finalmente a valle. Solo qualche altro chilometro ed eccoli infine a Garessio dove Tonò e Pierin, che li aspettavano in piazza, li accolsero calorosamente e li accompagnarono a casa.

3
La cascina distava qualche centinaio di metri dall’abitato ed era caratterizzata da un’enorme cucina dove, nell’angolo opposto alla porta d’entrata, una grande stufa a legna teneva caldo l’ambiente e gli animi.
Attorno al lungo tavolo alcune persone già sedevano. Un rapido, discreto sguardo in giro e con un certo disappunto Bedè vide che Giovanna non era tra i presenti. Gli altri, intanto, si stavano accomodando: i bicchieri furono presto riempiti con ottimo Ormeasco e la conversazione si animò tra i racconti del bosco e la cronaca di qualche scorribanda serale a Torino.
Il pane e il salame casereccio lasciarono presto il posto, sul grande tagliere di legno, ad una fumante polenta che Mario aveva amorevolmente cucinato nel grande paiuolo sopra la stufa. Venne servito anche il cinghiale in una enorme casseruola e tra i complimenti allo chef, il vino e le risate,  il convivio godette dei piaceri della tavola  e della compagnia.
Più tardi Bedè, uscito per fumare e per prendere un pò di fresco, rifletteva:
 - Puscibile che Giuàna a s’a sece tantu pijà a mà, l’ürtimu viègiu ch’a se sèmu visti, da nù fasse vié pe’ tüta a seja? (9)
Si erano visti a Taggia in occasione della fiera di S. Lucia e, dopo una serata passata allegramente in compagnia, rimasti soli, lui le aveva esternato il suo sentimento e le aveva chiesto di venire a vivere con lui alla Zotta. C’era qualcosa di magico nell’atmosfera di quell’attimo e una dolcezza sconosciuta lo aveva pervaso. La stava ad ascoltare stupito ed incapace, lui così disabituato al dialogo e alla confidenza, di dare un valido apporto alla conversazione. Si sentiva così grossolano di fronte alla grazia naturale di lei, dei suoi gesti, delle sue parole. Provò per lei una grande riconoscenza e si commosse, perse un poco l’innata riservatezza, la consueta timidezza e istintivamente avvicinò il proprio viso al suo per baciarla. Lei si era ritratta e dopo un lapidario “corri troppo, amico”, era corsa via a raggiungere gli altri.
La delusione che aveva provato inizialmente, era stata sostituita col passare dei giorni, dalla speranza di rivederla presto e poterle ancora parlare.
Così, quando gli amici giù in paese gli avevano detto che quest’anno avrebbero preso i tronchi per il falò a Garessio, dove lei viveva, aveva riso dentro di sè per l’occasione che gli era stata data di rivederla, di scusarsi, di chiederle un’altra opportunità. E di poterlo fare senza dover esporre troppo il suo sentimento in pubblico, come per casualità.
Ma l’aspettativa era andata delusa: stasera lei non si era vista e, fors’anche accentuata dall’Ormeasco, Bedè sentì una profonda tristezza pervaderlo e infreddolitosi, rientrò.
L’atmosfera all’interno lo rincuorò un poco: tutti ormai, si stavano ritirando nelle camere al piano superiore e, per qualcuno, salire le scale era impresa difficile a causa delle gambe appesantite dalle abbondanti libagioni e dal vino. E naturalmente questo provocava negli altri, scoppi di risa e dileggi.
Ma infine tutti trovarono una sistemazione e pian piano i rumori e le voci si spensero. Bedè, nel suo letto, ascoltando nel silenzio il russare quieto di Nello, pensò:
- A puxéva esse ina bella stòia tra mi e véla... ma forsci mi a sun troppu servàigu - (10) e una lacrima solcò la sua guancia e si perse tra la folta barba.

                                                                 *  *  *

Quando Guerino e Bedè alle sei e mezza del mattino successivo, scesero in cucina, fuori era ancora buio ma Tonò aveva già acceso la stufa e messo sulla piastra una moka da dodici tazzine: dal suo beccuccio usciva già un po’ di vapore e la fragranza del caffè dava all’ambiente, profumandolo, un’intimità familiare.
Qualcuno accese la radio e la voce di Modugno che cantava Nel blu dipinto di blu fu la loro colonna sonora per la giornata che andava ad incominciare. Presto tutti gli altri li raggiunsero e dopo aver sorseggiato con gusto la bevanda calda, uscirono nella fredda mattina, chi stringendosi nel pastrano, chi accendendo la prima sigaretta, per raggiungere il lavoro che li attendeva.
I tronchi erano accatastati nella radura a poca distanza dalla cascina, sul lato a monte della mulattiera che da Garessio sale a Battifollo. Si trattava di pini ed abeti che erano stati abbattuti dagli amici di Garessio per conto della Forestale perchè colpiti da un fungo parassita delle conifere. Sotto la direzione di Guerino, che sapeva il suo mestiere, in un’ora e mezza furono caricati e assicurati all’automezzo con grosse funi e alle nove erano tutti nuovamente a casa.
Entrando l’odore della pancetta che stava friggendo, solleticò le loro narici. Pierin e Bertumè (11) si davano da fare intorno ai fornelli e la colazione che cucinarono, per quanto abbondante, fu voracemente consumata tra risa, ammicamenti e prese in giro.
Si conoscevano da anni ormai e la conversazione era per certi versi scontata ma comunque scherzosa e molto piacevole, ma dopo un’ultimo caffè, avendo dato uno sguardo al suo orologio da tasca, Bedè si schiarì la voce e disse:
- Beli zùeni, grazie d’a vustra uspitalità, ma aù u l’è meju andà perchè a duvèmu fà stù faö. A me raccumàndu de caà staseja: nun staive a preoccupà che a-a Zotta postu pè durmì ghé n’è tantu. A se viemu dopu! Bona nèh! (12)

4
La Valle Impero era illuminata da un fulgido mattino di sole che faceva presagire una primavera precoce e bel tempo per quella sera. Trattandosi di fuochi, era importante che non piovesse, naturalmente, ma il cielo terso sembrava rassicurare i nostri che stavano già argomentando sul come costruire il falò e che presi dalla discussione, ridiscesero a valle e dopo il tratto di Aurelia si ritrovarono, in un tempo che sembrò loro brevissimo, nuovamente a Taggia, davanti al bar di Tunin.
Fu necessario bloccare per qualche minuto la strada per consentire a Guerino di scaricare i tronchi ed agli altri per sgombrare la carreggiata, ma fu un tempo sufficiente a far sì che parecchia gente del rione si radunasse intorno a quella scena.
Chi motteggiava, chi dava consigli, chi offriva un bicchiere: tutti comunque erano direttamente coinvolti e partecipi di quello che stava succedendo.
Guerino risalì al posto di guida e si avviò verso l’argine dell’Argentina dove avrebbe posteggiato. I cinque amici, aiutati da qualcuno dei curiosi lì attorno, accatastarono la legna sul lato della via e proprio mentre Pasquale e Alessio finivano di spazzar via qualche detrito dall’asfalto, la Rina, affacciatasi alla soglia della cucina, chiamò per il pranzo.
Stettero a tavola per breve tempo e dopo il rituale caffè si alzarono ed uscirono in strada per la proverbiale sigaretta e per preparare gli attrezzi.
Avevano deciso che avrebbero sistemato i ceppi alla carbunéia (13) l’antico sistema che richiedeva un particolare posizionamento dei tronchi così da ottenere un’abbondante areazione, affinché la fiamma fosse sempre ben ossigenata e bruciasse bene al centro dei falò.
Questo per evitare un eventuale precoce crollo dello stesso che avrebbe significato il fallimento del loro lavoro e l’ilarità e le burle della gente degli altri rioni.
Chiamarono a consigliarli il vecchio Murin, che con il carbone ci aveva campato per una vita, e sotto la sua direzione, dopo aver segato tutti i fusti ad una lunghezza di circa due metri e mezzo, iniziarono a disporli nella caratteristica forma a cono, tipica di quel tipo di costruzione.
Tunin intanto, con l’aiuto di Diego, suo figlio, aveva installato proprio sopra l’entrata del bar una coppia di altoparlanti che diffondevano musica: l’eccitazione saliva intorno al falò che prendeva forma.
I ragazzi lavoravano alacremente non risparmiandosi la fatica: il loro falò doveva essere il più bello del paese. Gli abitanti dei dintorni che erano coinvolti nell’impresa per lo stesso motivo, oltre a creare intorno al gruppo di lavoro una festosa cornice, davano una mano come potevano.
Gli uomini aiutavano ad accatastare i ceppi. Le donne scendevano da casa portando vassoi colmi di  sardènàia (14) e di frisciöi (15). Tunin, nel frattempo, si premurava di tener sempre piena la caraffa del vino e tutto attorno i bambini correvano schiamazzando e facendo esplodere mortaretti. Un generale clima di allegria si era diffuso, ma non sembrava coinvolgere Bedè che anzi, con l’avvicinarsi del completamento del lavoro, si incupiva sempre di più.
- Che triste sarebbe stato – pensava - ritornare alla Zotta da solo, dopo la festa.
Certo qualcuno sarebbe salito a bere un bicchiere ed a strimpellare per un po’ una chitarra. Ma la persona che lui avrebbe più volentieri ospitato, non si sarebbe vista. Fu un’attimo: l’idea di tornarsene a casa senza partecipare all’accensione del  falò e alla festa vera e propria lo colse impreparato, forse indebolito e senza riflettere, quasi di getto, lo disse agli altri.
Un coro di proteste si levò e tutti, a modo loro, cercarono di fargli cambiare idea ma lui, testardo, perso nella sua malinconia, non volle sentir ragioni.
Intanto la disposizione dei tronchi volgeva al termine ed essendo ormai quasi ora di cena, parecchie persone si ritirarono per il frugale pasto dopo il quale sarebbero tutti ridiscesi in strada. Anche i cinque compagnoni, dopo aver cercato un’ultima volta di convincere Bedè a rimanere, raccolsero i loro attrezzi e si avviarono a casa per rinfrescarsi un po’.
Bedè, rimasto solo, rimise nella sacca l’ascia ed il saracco e si avviò, le spalle curve e gli occhi bassi a terra, verso la mulattiera che lo avrebbe riportato a casa, quando improvvisamente, dietro di lui, una voce femminile, quella voce, lo fece sobbalzare dalla sorpresa.
Sentiva il cuore scoppiargli in petto: si voltò e lì a due passi c’era Giovanna. Gli si avvicinò e con quel tono particolare a causa del quale lui, ne era sicuro, aveva perso la testa, gli disse quasi sussurrando:
- Sai Bedè, stasera dopo la festa, mi piacerebbe salire alla Zotta per constatare personalmente se è un bel posto come dicono tutti.
- Ma col buio non vedresti niente - esclamò lui che per l’emozione aveva scordato per un attimo il dialetto, riacquistando miracolosamente l’uso dell’Italiano.
- Potrei, forse, fermarmi per qualche giorno – ribattè lei sorridendo con un’espressione timida e proprio per questo terribilmente invitante.
Bedè, travolto dalla commozione e dall’aspettativa, le strinse teneramente le mani e visibilmente raggiante sbottò affermando a viva voce:
 - Stu chi, u seà in San Benedetu magnificu! (16)


                                                           
Fine


 Danilo Sidari - 1996
Consulenza dialettale di Giuseppina Panizzi

LEGENDA
1) Appezzamento di terreno ottenuto innalzando un muro di contenimento e formando così un terrazzamento.
2) Da magaglio: zappa a tre punte usata per lavorare in profondità il terreno.
3)  - Sei salito ad aiutarmi, fannullone.
4)  - Abbiamo trovato il camion: noi siamo pronti a partire per andare in Piemonte a caricare la legna per il falò; tu cosa fai, vieni? -
5) Come usano cucinarlo a Badalucco, comune della Valle Argentina in provincia di Imperia.
6)  - Su a Garessio ci aspettano: è meglio muoversi.
7) Da mugugno: lamentela.
8) Asparagus Sprengeri: pianta ornamentale coltivata a Taggia, il paese dove si svolge  il narrato.
9)  -  Possibile che Giovanna se la sia presa così tanto a male, l’ultima volta che ci siamo visti, da non farsi vedere per tutta la serata?
10) - Avrebbe potuto essere una bella storia tra me e lei, ma forse io sono troppo rude, grossolano.
11) Bartolomeo.
12) - Bei giovani, grazie di tutto e della vostra ospitalità, ma adesso dobbiamo andare perché dobbiamo fare questo falò. Mi raccomando di scendere stasera: non preoccupatevi che alla Zotta posto per dormire ce n’è tanto. Ci vediamo dopo! Arrivederci.
13) Carboniera.
14) Focaccia guarnita con sugo di pomodoro, acciughe, aglio, origano e olive nere, tipica del ponente ligure.
15) Frittelle di baccalà, o bietole oppure fiori di zucca.
16) - Questo sarà un S. Benedetto magnifico!

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