Non erano passate ventiquattro ore da quello che qui definiscono un “coup”, il classico colpo di mano, con il quale nel settembre scorso Malcolm Turnbull ha spodestato dalla guida della coalizione liberal-nazionale il “destroide” Tony Abbott, che il rappresentante della “sinistra” del partito conservatore dichiarava che la sua politica per l’Ambiente si sarebbe completamente distaccata da quella del suo predecessore.
Ad oltre due mesi di distanza da quelle dichiarazioni, dei cambiamenti a così gran voce promessi e strombazzati su tutti i media nazionali, non c’è neanche il più vago sentore, anzi...
Alla vigilia della Conferenza ONU di Parigi sui cambiamenti climatici, la cosiddetta COP 21 (30 novembre – 11 dicembre), a cui prenderanno parte migliaia tra delegati, esperti, ricercatori, operatori media e osservatori che giungeranno dai quattro angoli del pianeta, le autorità australiane hanno voluto, per così dire, riaffermare a gran voce quella che era e rimane la linea ufficiale della politica ambientale “downunder”: carbone, carbone e ancora carbone.
Dopo anni di dispute, ricorsi, petizioni, proteste e nonostante la creazione di decine di comitati, sia indigeni che “bianchi”, il Mackay Conservation Group in testa, che hanno manifestato contro, il 16 ottobre scorso il ministro federale dell’Ambiente, Greg Hunt, ha dato il via libera ai lavori per la realizzazione del polo minerario più esteso sotto la Croce del Sud, il Mackay Carmichael Coal Mine Project, del valore complessivo di 16 miliardi di dollari, che prevede per l’esportazione del minerale fossile, dopo la necessaria ristrutturazione, l’utilizzo dei terminal di Hay Point, dirimpetto alla barriera corallina e la costruzione ex-novo di una linea ferroviaria lunga 190 chilometri che colleghi la miniera a quella già esistente che si stende fino alla costa dell’oceano.
Hunt si è premurato di informare l’opinione pubblica che ben 36 sono i criteri ambientali strettissimi a cui la ditta titolare del progetto, l’indiana Adani, è stata sottoposta, specificando che in qualunque momento, in presenza di qualunque violazione anche di uno solo di essi, il permesso sarebbe sospeso ed eventualmente revocato.
Intanto i lavori stanno per iniziare: abbiamo detto della linea ferroviaria e del terminal portuale, proprietà di una joint-venture tra BHP Billiton e Mitsubishi, che rivedremo presto. Ma per dare l’idea dell’estensione del bacino minerario, basti pensare che la miniera sarà lunga, per fare un parallelo ligure, da Genova a Sestri Levante e occuperà una superficie pari a 500 chilometri quadrati, la metà della provincia di Imperia. A pieno regime la miniera produrrà sessanta milioni di tonnellate di carbone annuo, la maggior parte del quale verrà esportato in India.
L’ultima notizia in ordine di tempo (è di poche ore fa) è che il Queensland Coordinator-General (il direttore generale alle Infrastrutture), su pressione della Adani, ha proposto di eliminare il Native Title - che attesta la proprietà del suolo alla popolazione indigena - da una parte dell’area designata per i lavori. Questo perché l’azienda indiana intenderebbe costruire su essa un aereoporto, una centrale termoelettrica e gli alloggiamenti e servizi per le migliaia di addetti ai lavori che verranno impiegati.
Ed ora, in chiusura, presentiamo Jeyakumar Janakaraj, il direttore del futuro polo minerario. Forse il lettore ricorda che l’anno scorso la KCM di Lusaka, braccio operativo della indo-britannica Vedanta Resources, fu trascinata di fronte alla High Court di Londra da una class action per rispondere del disastro ambientale causato in Zambia dalla miniera di rame a cielo aperto di Chingola, nel periodo che va dal 2004 al 2014, appunto. La miniera, inquinando con i suoi scarichi il fiume Kafue, ha privato di acqua potabile e di cibo circa il 40% della popolazione nazionale. Fino al 2013 il direttore dei lavori in Zambia era quel Janakaraj che ora dirige i lavori in Australia.
Quanto all’Adani, lo abbiamo accennato, utilizzerà per il carico sulle navi gli impianti della BHP Billiton, che risulta essere titolare delle dighe brasiliane che letteralmente sono esplose nei giorni scorsi nella regione brasiliana del Minas Gerais, provocando il più grande disastro ecologico della storia del paese sudamericano.
Insomma, tutta gente che ci tiene veramente alla conservazione del Pianeta!
No comments:
Post a Comment