Bonnie
1
Ho messo in moto
la Bonneville del ’67: ha sempre un bel rombo, pieno, rotondo. Non è il primo
viaggio lungo che mi appresto a fare a cavallo della bicilindrica a V di 650
centimetri cubici, la miglior motocicletta, dicono gli iniziati, che la Triumph
abbia costruito nella sua lunga storia motoristica.
Ma stavolta,
cribbio, devo salire a Copenaghen, sono quasi duemila
chilometri.
Del
resto che alternative avevo?
Quando si ricevono certi
inviti e quando, si capisce, questi arrivano dalla persona giusta, non li si
può mica rifiutare.
Un paio di giorni per
organizzarmi e adesso, il tempo di indossare guanti e casco, salire in sella,
dare un colpetto col tacco sulla levetta del cambio e ingranare la prima e sarò
“on the road again”, come nel famoso blues dei Mamas & Papas.
Quello che nella mia mente non
era che una pruriginosa fantasia, da qualche tempo è diventata realtà e io
voglio andare a cogliere un frutto maturo che non aspetta altro che di essere
colto.
Ultimamente il tono delle sue
e-mail s’era fatto più intrigante e il vocabolario usato si era arricchito di
virtuosismi che poco concedevano all’immaginazione.
Io, per dirla tutta, non mi
ero certo tirato indietro, contribuendo con le mie risposte a scaldare
l’atmosfera.
Ma con le ultime due
performance alla tastiera lei sembrava aver definitivamente saltato il fosso:
- Non mi piace pensarlo ma
qualche volta ho bisogno di te. Voglio i tuoi baci, la tua lingua, le tue
carezze, le tue lusinghe. Voglio sentirmi femmina come tu sai farmi sentire,
voglio la tua tenerezza e la tua irruenza, voglio la tua mente tutta per me, le
tue orecchie le tue mani e il tuo cuore. E mi pentirò di tutto questo che sto
scrivendo, ma per ora te lo regalo perché è tuo e ti appartiene. Un bacio solo,
ma lunghissimo ed appassionato - recitava il primo messaggio.
Il secondo era, se possibile,
ancora più esplicito:
- Ti piace questa camicetta
marrone stropicciata, scollata sino al punto giusto? E adesso fai cadere
“inavvertitamente” la rivista che tieni in mano e chinati a raccoglierla.
Guarda verso la mia scrivania: ho allargato leggermente le gambe e sotto la gonna
non indosso niente...
E non sono mica sant’Antonio
nel deserto, io! Anzi, per natura sono anche un po’ bagascia, come dovevo
prenderla?
Laggiù a ponente, il sole sta
tramontando dietro il promontorio dei Balzi Rossi e infiamma il cielo di un
caldo arancio che lontano a est, sopra Genova, assume sfumature già purpuree
che preludono al crepuscolo.
Il mistrale sta scemando
lasciando il posto a una brezzolina che spira da sud e porta fragranze di
salsedine.
Sto dimenticando qualcosa.
Dunque: il gas l’ho chiuso; Macondo, il gatto, l’ho portato da Cioran, il
tipografo, che ad esclusione degli umani ama tutti gli esseri viventi; la
segreteria telefonica è inserita e ho lasciato il mazzo di chiavi nel solito
posto per mia sorella che viene a controllare e, dice lei, a riordinare un po’.
E a farci l’amore con Antonio Ossiboi,
aggiungo io, ma lei, guarda caso, questo particolare l’ha tralasciato.
Cosa ho scordato allora?
E caspita, a momenti mi
dimentico di chiamarla. Glielo avevo accennato che volevo andar su ma non posso
mica piombarle in casa così all’improvviso. Diamole il tempo di prepararsi
psicologicamente all’incontro e nello stesso tempo evitiamoci imbarazzanti
faccia a faccia, mi spiego, con un qualche Fritz danese.
Mentre digito il numero, la mia
mente si perde nuovamente dietro alla sua immagine: chi è questa donna?
Si chiama Josephine, Jó per
gli amici, e l’ho conosciuta su una chat line: sai come vanno ‘ste cose, no? Si
comincia con i convenevoli e si va avanti entrando sempre più in confidenza
fino a che, gli psicologi dicono complice l’anonimato, si finisce
immancabilmente per farsi trascinare verso conversazioni erotiche.
Ma Jó e il sottoscritto non
siamo più anonimi: dopo i nomi, quelli veri, ci siamo scambiati delle
fotografie e abbiamo continuato a scriverci e a rinfocolare il desiderio di
conoscerci personalmente.
Siamo coetanei. Lei è milanese
ma vive da anni in Danimarca dove ha messo su una piccola scuola privata dove
si insegna l’italiano.
Due occhi verdi e grandi che a
volta sembrano perdersi dietro chissà quale favola, una cascata di capelli
castani che incorniciano un ovale perfetto, il naso all’insù, le labbra piene,
l’amica meneghina si porta a spasso un corpo minuto ma proporzionato dove due
seni sodi e un paio di natiche da antologia del voyerismo, spiccano quasi a
voler testimoniare una sensualità che a giudicare dal taglio che dà ai suoi
scritti, indovino dirompente.
- Hello - risponde la sua voce
calda e matura.
- Sono Ennio, disturbo?
- Ma figurati, adoro la gente
che sa sorprendermi. Ma dimmi come stai?
- Sono in splendida forma e
sto per partire.
- In moto? E dove vai, a
qualcuno di quei raduni per centauri?
- Certo, in moto, ma niente
raduni: vado a Copenaghen, a trovare un’amica.
- Stai dicendo che…vuoi dire
che vieni a trovarmi?
- Positivo: non ce la faccio
più con le carezze virtuali. Adesso salgo e se sei d’accordo la cosa la giriamo in reale. Ti va?
- Beh, ti ho detto che adoro
chi sa sorprendermi e tu ci sei riuscito. Ti aspetto.
- D’accordo. Però la moto ha i
suoi anni, non posso spingere più di tanto: per domani in serata sono su.
Magari tardi: va bene?
- Perfetto. Stavo pensando -
si interrompe ridendo divertita - senti che combinazione: ieri parlavo con
un’amica di Milano che ha accennato anche lei a salire a trovarmi. Se la chiamo
e le dico di prepararsi per viaggiare in moto, a te dispiace darle un
passaggio?
Non posso negare un pizzico di
contrarietà al pensiero di una terza persona a disturbare la nostra intimità,
ma faccio buon viso a cattivo gioco:
- Nessun problema ma come si
chiama, dove abita?
- Vedrai è un tesoro: si
chiama Viola e abita sul Naviglio grande. La chiamo subito e le dico di tenersi
pronta. A che ora pensi di essere lì?
Mentre prendo nota
dell’indirizzo faccio un breve calcolo mentale: due ore e mezza per arrivare al
casello di Assago e un’altra mezz’ora per trovare il posto.
- Dille che se non ci sono
intoppi, per le dieci al massimo sono a casa sua. Se gentilmente prepara un
panino e una birra per rifocillarmi, poi prendiamo subito la “Chiasso”: vorrei
viaggiare tutta la notte.
- D’accordo, glielo dirò.
Vedrai che si farà trovare pronta - chiosa con un risolino dal tono
indefinibile - non vedo l’ora di vedervi. A presto.
- Anch’io. Ci vediamo domani
all’ora di cena.
2
Viola abita in una di quei
vecchi caseggiati di ringhiera, retaggio di una Milano che stava scomparendo prima che il Naviglio
ridiventasse una zona “in”. Il palazzo ha un grosso portone in legno che
tengono aperto solo di giorno, in cui è tagliata una porticina laterale a
esclusivo uso pedonale e notturno.
Pigio il pulsante del citofono
corrispondente al cognome indicatomi. Dopo qualche istante d’attesa, una voce
femminile suadente e caratterizzata da una leggera cadenza meridionale mi
risponde:
- Sì...chi è?
- Salve, sono Ennio, l’amico
di Jó.
- Ben arrivato. Ti apro il
portoncino: metti la moto dentro, non si sa mai. A motore spento mi raccomando.
Sali al terzo piano: la porta è quella a sinistra dell’ascensore.
Salgo a piedi: ho bisogno di
sgranchirmi le gambe. Sto per pigiare il pulsante del campanello quando la
porta in questione si apre offrendomi una visione che mi lascia senza fiato.
La luce ovattata dell’androne
avvolge tenuamente una figura femminile semplicemente conturbante: un metro e
settanta abbondanti, occhi scuri, capelli corvini tagliati a caschetto e
un’insieme di curve, anfratti, morbide e arrotondate sporgenze che un sari
indiano trasparente nasconde parzialmente al mio sguardo, ma non alla mia
immaginazione.
Non riesco a evitare una
rapida ma esaustiva panoramica visiva e la mia esplorazione termina sul suo
viso sorridente e atteggiato alla più sincera comprensione del mio piacevole e
sorpreso imbarazzo.
I suoi occhi, che molto
rapidamente mi hanno a loro volta esaminato, sembrano voler dire: “Bene, volevo
far colpo e ci sono riuscita”.
Tendo la mano per presentarmi:
lei la stringe e poi si protende e mi bacia le guance.
Vengo introdotto in un
ambiente sobrio ed elegante, immerso nella penombra dove spicca solo la luce di
un paio di candele profumate, che liberano la loro fragranza nell’atmosfera
soffusa creata ad arte.
Mi rinfresco un attimo e poi
la donna mi fa accomodare al tavolo da pranzo già apparecchiato per due:
- Un panino, dovendo viaggiare
tutta la notte, poteva essere indigesto. Ho pensato che del nasello fosse più
indicato, più leggero: Jó mi ha detto che adori il pesce.
Solleva il coperchio dello
scaldavivande e serve i due filetti di pesce cotti al vapore insieme a
un’insalatina di rucola novella. Poi si volta verso la credenza, prende due
flûtes e li riempie con del prosecco che aveva precedentemente messo in un
secchiello pieno di ghiaccio.
“Che attenzione per il
particolare” penso mentre constato che il pesce è semplicemente squisito, e mi
congratulo.
Ceniamo parlando di noi, così,
tanto per rompere il ghiaccio. Certo che quando lei, presa dalla conversazione
e chissà, magari anche da un pizzico di civetteria, si sporge sul tavolo verso
di me per versare un altro sorso di vino lasciandomi intravedere i suoi seni
pieni e maturi tra i lembi del suo sari, a me sembra che il ghiaccio sia ormai
completamente liquefatto.
- La caffettiera è nella
credenza - mi sorride cogliendo nuovamente quella luce nei miei occhi - e il
caffè è in frigo: ti dispiace pensarci tu mentre mi preparo per il viaggio?
Borbotto qualcosa imbarazzato
e mi accingo a eseguire; lei si allontana
verso l’interno dell’appartamento, anch’esso immerso nella penombra.
Quando ritorna in soggiorno
subisco un altro shock: la conturbante Shakti di poco prima, ha lasciato
il posto a una pantera nera.
- Va bene così? - chiosa con
civetteria.
Pantaloni e giubbotto di
pelle, un maglioncino girocollo, due stivaletti grintosi, il caschetto di lana
e un paio di guanti di pelle, tutto rigorosamente scuro e un foulard di seta a
fiorami a proteggere la gola. In mano tiene uno zainetto da trekking.
Ride di gusto del mio nuovo
stupore. Prendiamo il caffè e dopo una veloce riordinata alla cucina mi esorta:
- Andiamo, abbiamo tanta strada da fare.
C’è poco traffico sulla
tangenziale e in mezz’ora siamo a Chiasso. Superiamo la dogana e oltrepassato
l’abitato della cittadina di frontiera, finalmente ecco la Svizzera verde,
quella di Pablo. Una sosta veloce all’autogrill di Coldrerio per un
altro caffè e poi via di corsa nella notte.
Ho portato anche un paio di
auricolari in più per il passeggero da collegare al lettore dei cd: Simon &
Garfunkel ci accompagnano con le loro voci, mentre davanti ai nostri occhi
sfilano velocemente le luci di Bellinzona e di Lugano a fondovalle e dei paesini in altura quando attacchiamo le prime
rampe del Gottardo.
In cima, sullo spartiacque,
inizia il lungo tunnel: un muro grigio di cemento lungo diciotto chilometri, i
neon gialli, i segnali luminosi verdi delle uscite di sicurezza.
Venti lunghi minuti underground poi
finalmente le stelle, i costoni di roccia e l’Aarau
che giovane, scorre tempestoso a valle, verso il lago, verso Lucerna.
Poi la strada si fa di nuovo
piana: Viola ha cambiato cd e ha messo su Crosby, Stills, Nash & Young e
così, immerso in dejà vu tanto musicali quanto esistenziali, mi ritrovo
a Basilea dopo un tempo che a me è parso molto breve.
Sono comunque già le due e
mezza del mattino quando mi fermo al rasthoff subito dopo la frontiera:
abbiamo voglia di sgranchire le gambe e stirare la schiena e poi dopo la sosta
ai bagni e il pieno, magari anche di un caffelatte e di una fetta di strudel,
per rifocillarci.
L’autobahn è deserta a
quest’ora, se si eccettua qualche pazzo che al volante di rombanti auto sportive
e approfittando dell’assenza di limite di velocità, ci supera a duecento
all’ora interrompendo la monotonia della lunga striscia d’asfalto che taglia in
due lo Swarzwald.
Sono ormai alle porte di
Mannheim quando inizio a sentire i primi seri sintomi di sonnolenza. Mi servono
al massimo tre o quattro ore di sonno, in una zona tranquilla di un parkplatz
e sarò come nuovo. Io ho solo il mio sacco a pelo: spero che anche la mia amica
ne abbia uno nello zainetto.
Supero l’indicazione
dell’uscita sud di Darmstadt quando Viola mi dà due colpetti sulla spalla e mi
fa dei cenni con la mano destra: vuole uscire dall’autostrada.
Esco, rallento e al primo
incrocio mi fermo: non ha il sacco a pelo.
- Ma poi Ennio dai, sono le
quattro e mezza e abbiamo più di cinque ore di guida sulle spalle e tu sei
stanco, si vede dagli occhi. Fermiamoci in una pensione, dormiamo qualche ora,
quando ci alziamo facciamo una bella colazione alla tedesca e poi viaggiamo
tutto il giorno: ti va il programma?
Il Gasthaus si chiama König
Wilhelm e non hanno camere singole: due matrimoniali o una doppia con due
lettini.
Uno sguardo veloce e optiamo
per quest’ultima: non so lei, ma io, malgrado il sonno, un brividino sulla
schiena l’ho sentito salire.
Finalmente siamo in camera:
lei va in bagno per svestirsi mentre io, stanchissimo, mi allungo sul letto e
senza rendermene conto mi appisolo.
La sua voce che mi esorta a
spogliarmi e mettermi comodo mi risveglia. Riapro gli occhi a fatica: stavolta
indossa solo la tovaglia da bagno fornita dalla ditta e il resto sono gocce
d’acqua che scivolano sul suo corpo quasi nudo.
È un attimo: mi siedo sul
letto e silenziosamente le tendo le braccia. Lei allunga le sue a unire le
nostre mani e l’enorme telo di spugna scivola a terra regalandomi una vista che
mi fa passare immediatamente il sonno.
“Ma non eri stanco morto” blatera la solita vocina interna.
Niente storie, adesso: siamo
in ballo e balliamo!
3
Una cotoletta di maiale alla piastra con contorno di stufato di cipolle
e una mezza pinta di pilsner locale non è la mia colazione abituale. Abbiamo
tirato a indovinare, visto che il nostro tedesco si riduce a guten Morgen
e gute Nacht, e questo ci ha riservato la sorte. Del resto sono le dieci
passate e poi, dopo tutto quel trafficare qualche ora prima, insomma, la
pietanza va giù che è un piacere.
Anche
la mia compagna sembra assaporare molto il primo pasto della giornata: mangia
con gusto e in silenzio mentre un sorriso indefinibile le illumina il viso.
Sono
un tantino turbato da quello che è successo stanotte. Lei, stando a quello che
afferma, no. Dice che magari in macchina si sarebbe addormentata ma in moto,
con tutte quelle vibrazioni, insomma, sai com’è...
Dice
che quando mi ha fatto segno di uscire dall’autostrada, sentiva un calore che
le veniva su, e le sue mani sfarfallanti misurano la distanza tra il centro del
suo corpo e la sua testa.
Non ho
nulla da recriminare, figuriamoci, ogni lasciata è persa, ma il fatto è che mi
trovo a metà strada di un percorso che doveva portarmi tra le braccia di una
donna e nel frattempo sono finito tra quelle di un’altra.
Ma non
un’altra qualsiasi, tipo un’avventura estiva passeggera che tra qualche
chilometro si concluderà con un sorriso e delle promesse che non verranno mai
mantenute.
Questa
“altra” è l’amica della donna che stiamo andando a trovare, che ci ospiterà
nella stessa casa e di cui noi, inutile girarci intorno, abbiamo tradito la
fiducia.
“A
meno che...” e sto già scrivendo una sceneggiatura che mi strappa un
sorriso beffardo.
Sono
quasi le undici ed è meglio incamminarci: mi alzo e vado a pagare il conto
mentre Viola, nuovamente in completo di pelle nera, sistema il suo zainetto:
siamo nuovamente pronti a partire.
Ehhh...certo che come la
Bonneville non ce n’è, la mitica Bonnie! Non mi stancherò mai di benedire quel
giorno che impiegai i risparmi racimolati in una stagione di camionaggio per
acquistare questa motocicletta da un collezionista. Guarda ‘ste forme
arrotondate, ‘sti cilindri cromati, ‘ste Marzocchi lì davanti, senti che rombo:
una tardona mozzafiato.
L’autostrada adesso è molto
trafficata: siamo ormai alle porte di Francoforte e i disagi della circolazione
stradale aumentano.
Viola, per farmi rilassare
presumo, ha messo su Pirates di Rickie Lee Jones, ma l’attenzione che
devo porre nella guida è tale che quasi non sento neanche i gorgheggi della
biondina americana.
Via, via da questo casino. A
Offenbach prendo la 66 per Fulda: allungo un po’ ma evito il caos della
tangenziale metropolitana nell’ora di punta.
Ben presto infatti, con il
rotolare dei chilometri, il paesaggio cambia nuovamente sostituendo le panciute
colline del Vogelsberg alle sagome dei grattacieli e il tanfo degli scappamenti
con l’altrettanto sgradevole ma più naturale olezzo emanato dal liquido color
bruno che le concimatrici spargono sui campi.
I miei occhi catturano
l’immagine di alcune chiatte cariche di carbone che scivolano sul Fulda e
ripenso a tutte le volte che ho immaginato di vivere su una di esse. La casa,
il lavoro e il nomadismo acquatico: una prospettiva a dir poco allettante,
quella dell’anarchismo fluviale.
Ma mi sono sempre scontrato
con la scarsa navigabilità dei fiumi liguri e, diciamola tutta, con
l’approssimativa determinazione che ho messo nel cercare di concretizzare
quell’aspirazione ideologica ed esistenziale.
Il paesaggio è bucolico: alle
praterie si alternano boschi di conifere e querceti da cui fanno capolino
gruppi isolati di daini che brucano incuranti del nostro passaggio.
Viola ha messo su i Rolling
Stones: bello il contrasto tra il paesaggio agreste e la Fender di Keith
Richards, considerati i chilometri che dobbiamo ancora percorrere.
Comunque non dispero: sono le
due del pomeriggio e siamo quasi a Kassel e il breve calcolo mentale sui
rimanenti tempi di viaggio mi rincuora.
Infatti, con una certa
euforia, riassaporo due sensazioni ben distinte: un certo languorino allo
stomaco e la consistenza dei seni di Viola premuti sulla mia schiena.
La sagoma dei grattacieli di
Göttingen si profila nel cielo terso davanti a noi, quando i due noti colpetti
sulla spalla mi annunciano che la mia compagna vuole fare una sosta.
Mi fermo al primo rasthoff
e mentre lei si allontana verso i servizi faccio il pieno. Una volta
posteggiata la moto, mi avvio a lunghi passi verso la splendida creatura che mi
viene incontro sorridendo:
- Altre vibrazioni? - chiedo
ammiccante.
Lei ride scoprendo i denti
bianchissimi:
- Sì, ma stavolta si sono
fermate allo stomaco - ribatte.
Pranziamo con due
speziatissime gulash souppe, pane di segale e un caffè allungato. Dentro
di me auspico che il cibo e la bevanda calda mi diano la carica sufficiente a
continuare, ma la stanchezza e il sonno perso pesano. Le palpebre si fanno
pesanti e sarebbe stupido insistere, pericoloso: ci vuole una siesta, un’oretta
di black-out.
Il bel sole estivo del primo
pomeriggio e i prati ben curati dei dintorni fanno il resto: srotolo il sacco a
pelo, lo distendo sull’erba e cavallerascamente la invito ad accomodarsi. Non
se lo fa ripetere due volte: si toglie gli stivaletti e si allunga sul piumone
avendo cura di lasciarmi lo spazio sufficiente per distendermi al suo fianco.
Si volta, mi sfiora le labbra con un bacio lieve e sistemato il suo caschetto di
capelli neri sul mio braccio, si addormenta.
4
Abbiamo dormito più del previsto:
sono quasi le cinque del pomeriggio e siamo ancora a Göttingen: la tabella di
marcia è saltata.
Tiro fuori da uno dei borsoni
fissati alla sella, lo Strassen edizione ’89 e ricalcolo i chilometraggi e i
tempi di percorrenza.
La mia espressione incazzosa
dev’essere abbastanza palese. Viola, che si sta stirando le spalle dopo la
pennichella, si inginocchia nuovamente e in tono lieve ma ironico mi dice:
- Non ti preoccupare, ci starà
aspettando. Adesso la chiamiamo e le diciamo che ce la siamo presi comoda - e
mi strizza l’occhio.
Mentre mi parla estrae dallo
zainetto un cellulare, compone un numero e poi si alza e si allontana di
qualche passo.
Di quello che le due donne si
dicono al telefono colgo poco e niente. Viola si volta sorridendo un paio di volte
nella mia direzione e dopo una fittissima conversazione durata non più che un
paio di minuti, spegne il telefonino. Si riavvicina ancheggiando sensuale e
sentenzia:
- Che ti dicevo? Ci sta
aspettando e se anche non arriveremo per cena, ti manda a dire che ha già in
frigo un bel merluzzo del Baltico e la cucina a tua disposizione per domani
sera. Domani non va a scuola e ci porta un po’ in giro per la città. Adesso
andiamo, ma con prudenza: non c’è poi tutta ‘sta fretta.
Siamo di nuovo in sella e
spingo quasi al massimo il motore della Bonnie. Lei canta imperterrita il rombo
dei suoi quarantasette cavalli e raggiunge a tratti la bella velocità di centoventi chilometri orari: non male per una
trentacinquenne.
Dopo oltre due ore a ritmo
sostenuto, giunto in cima a una collina, rallento per entrare in una stazione
di servizio per farla riposare un po’, per il pieno e per un caffè veloce. I
miei occhi colgono la vista, laggiù a nord-ovest, del sole che lentamente viene
inghiottito dalle acque dell’Elba prima di sfociare nel Mare del Nord: siamo
quasi ad Amburgo.
Dieci minuti di pausa e fatta
benzina ripartiamo.
Il cartello chilometrico non lascia
tregua: Flensburg, la cittadina al confine con la Danimarca, è distante ancora
centosettanta chilometri, un’ora e mezza di strada; poi ne servono altre due
per arrivare a Copenaghen e infine quel po’ di tempo che impiegheremo per
trovare l’abitazione di Jó. Allungheremo la schiena su di un giaciglio non
prima di mezzanotte. Sorrido, va bene lo stesso: sto già pregustando i giorni
di relax...totale.
Scende la sera sullo Schleswig-Holstein e
la notte ci regala decine di sprazzi di
intimità “in corsa”: sagome scure di paesotti caratterizzati dall’immancabile
campanile, dalle luci delle case e da quelle dei gasthaus.
Le tante ore in sella, la
schiena indolenzita e le natiche formicolanti a causa delle vibrazioni del
motore sarebbero tre ottimi motivi per imboccare un’uscita e andare a trovare
rifugio e riposo in un minuscolo alberghetto di campagna. Ma finalmente ecco Flensburg,
il posto di confine: un venticello tutt’altro che mite spira da nord mentre
superiamo la linea di frontiera a passo d’uomo. Fa freddo e i militari che sono
seduti nel gabbiotto non si sognano neppure lontamente di uscire e controllare.
Uno di loro, senza neanche staccare gli occhi dal televisore, ci fa segno di
proseguire.
Il vento ora si fa deciso e
fastidioso ma ormai, spinti avanti dal pensiero di una doccia calda e del
meritato riposo, superiamo i restanti chilometri che ci dividono dallo scoglio
della Sirenetta e finalmente, esausti, arriviamo nella città delle fiabe.
Fermo il primo taxi libero che
passa nei paraggi, infilo in mano all’autista il biglietto su cui ho scritto
l’indirizzo di Jó, una banconota da cinquanta corone e gli faccio segno di
andare avanti mentre io lo seguo in moto.
Mentre sono concentrato a non
perdermi il taxi nel pur modesto traffico serale, la mia compagna di viaggio
trova ancora la forza di frugare nel suo zainetto, estrarre il cellulare e
avvertire che stiamo arrivando.
Dopo circa venti minuti, il
taxi si ferma di fronte a una graziosa villetta di mattoni rossi, il tetto
spiovente, le tendine bianche alle ampie finestre e un grosso fumaiolo
all’esterno. Sulla cassetta delle lettere una targa indica il numero diciotto
della Gjørlingsvej e poco più in là un cartello stradale mi dice che siamo a
Hellerup. Sul prato antistante la porta d’ingresso, jeans, camicetta marrone e
un sorriso smagliante, Jó ci sta aspettando.
5
L’ambiente è decisamente
nordico: parquet e tappeti ovunque, comode poltrone foderate di alcantara
amaranto, legno a profusione.
- Did I see you walking
with a boy... - canta Neil Young e la sua voce nasale esce fluttuando dagli
altoparlanti e si posa lieve su di noi.
Al centro della parete più
grande c’è un bel caminetto di pietra grigia in cui lentamente si consuma un
bel ciocco di legno di quercia.
Dietro la poltrona su cui
stravaccato faccio gli ultimi sforzi per non addormentarmi, in una grande
credenza di pino norvegese sono esposti ordinatamente decine di ninnoli. Jò ci
racconta che sono tutti i souvenir dei viaggi, delle persone e delle situazioni
che valeva la pena fossero ricordate.
Dalle pareti pendono alcune
stampe incorniciate: un paio di Monet, il Moulin de la Galette di
Renoir, una veduta della Sainte Victoire di Cèzanne e la Rue
Montmartre di Pissarro. A giudicare dai dipinti che le piace avere
sott’occhio, la nostra ospite ama le impressioni: il primo acchito sembra
essere molto importante per lei.
La guardo, la ascolto e mi
perdo: che bella che è, altro che e-mail e foto scannerizzate. E poi ha dei
modi così accomodanti, sa proporsi, è sollecita verso gli altri, si capisce, è
sensibile, attenta.
Le due donne chiacchierano, io
sento che sto crollando: mi scuso e mi alzo per ritirarmi nella camera che mi è
stata assegnata.
Mentre Jó si alza per
accompagnarmi, Viola mi soffia un bacetto sul palmo della mano e sorridendomi
mi augura la buonanotte.
In camera lei mi aiuta a
svestirmi, mi rimbocca il piumone e poi, inaspettatamente, mi dà un bacio.
Malgrado lo sfinimento,
reagisco stringendola a me. Lei però mi scosta gentilmente:
- Abbiamo bisogno di
conoscerci meglio, di prendere confidenza, di piacerci, ti pare? E poi di là
c’è Viola che aspetta, insomma, non sarebbe carino.
Mi sfiora le labbra con le sue
e si alza dirigendosi verso la porta della camera. Mi sorride, spegne la luce,
chiude la porta e mi lascia lì al buio, esausto e tronfio.
Quando riapro gli occhi
dev’essere mattina avanzata. Scosto appena il drappo per spiare fuori senza
essere visto ma la luce del sole mi forza a lasciarlo ricadere.
Sbircio la pendola di mogano:
sono le dieci e noto che considerata l’ora c’è un insolito silenzio in casa.
Prendo dallo zaino il necessario per la barba, indosso l’accappatoio e mi avvio
silenziosamente verso il bagno.
C’è uno studio, con il
computer e la libreria; c’è un’altra camera con armadio, cassettone e un letto
intatto; c’è un guardaroba con un grosso armadio, l’asse e il ferro da stiro e
le pile di indumenti da riporre nei cassetti. E poi c’è la camera di Jó, la
porta semi-aperta, con un bel lettone a due piazze. Mi stropiccio gli occhi per
mettere a fuoco la vista: sotto il copriletto a motivi floreali, la padrona di
casa e la sua amica dormono teneramente abbracciate.
6
“ She’s laughing in her sleep, boy. I can
feel it in my bones” sta sbraitando Tom Waits dall’impianto stereo del bar dove sono
entrato per fare colazione e ascoltandolo inevitabilmente ripenso alle due
donne abbracciate e probabilmente sorridenti nel loro sonno popolato dei
ricordi sensuali della notte appena trascorsa.
C’è il sole, è vero, le
brioches sono croccanti e imburrate al punto giusto e il cappuccino che mi
portano ha la temperatura giusta ed è ben zuccherato. E c’è poi il piacere
pneumo-cerebrale della prima sigaretta della giornata.
Ma il gradevole stato d’animo
che questi venali ma intimi piaceri mi procurano, è un tantino viziato da
un’altra sensazione che fa capolino: la sensazione di essere stato usato come
cavia, di essere stato messo in mezzo.
Invece il trip, la
sceneggiatura che m’ero scritta io prevedeva che si sviluppassero
separatamente due relazioni diverse: bastava tenerle segrete, no?
“Marcava il territorio, lui:
prima ha fatto sesso con una, poi, separatamente, vuole farlo anche con
l’altra. L’unico, il dio benevolo che dispensa delizie, il vero gallo nel
pollaio” blatera quella bastarda della vocina, tutta piena di sussiego e
sarcasmo.
- Fottiti - le rispondo con un
tono di voce un po’ troppo alto con l’unico risultato di far voltare il
cameriere con uno sguardo pieno di rimprovero.
Comunque lei si zittisce e io
con un certo sollievo ordino un caffè e accendo un’altra sigaretta mentre
prendo dalla tasca interna del giubbotto una rivista acchiappata al volo
uscendo di casa.
La sfoglio svogliato ma la mia
attenzione viene attirata dal titolo di una novella dedicata ad Anais Nin, la
sacerdotessa della letteratura erotica del ‘900. È la storia di una donna che
sembra spinta da impulsi e motivazioni simili a quelle che mi hanno portato a
imbarcarmi in questa avventura, per cui ben presto finisco per immergermi nella
lettura.
Dopo un tempo che
non saprei, due mani sui miei occhi la interrompono:
- Sei tu Jó?
Le mani scivolano
sulle mie guance ben rasate omaggiandomi di una carezza. Mi volto e il suo viso
sorridente cancella di colpo tutte le mie beghe mentali.
- Caspita Ennio,
sono quasi due ore che ti cerco. Ci volevi abbandonare e tornare da solo in
Italia? - mi chiede con un pizzico di sarcasmo.
Le beghe mentali
rifanno capolino:
- Beh,
insomma...ecco, non me l’aspettavo di trovarvi così, non immaginavo che foste
così intime - balbetto fingendo imbarazzo e calcando il mio tono risentito.
La sua risata è un
cascata di suoni argentini che rotolano tra i tavolini del bar. Ordina un
cappuccino, si siede e adesso è terribilmente seria:
- Eccolo qua il
maschio da antologia che salta fuori. Fammi capire, stai facendo il gelosone o
è che avevi altri piani con noi due? Due storie diverse magari eh? Ma sei certo
di potertelo permettere? Intanto, se parliamo di gelosia, tra noi, tra me e te
non ci sono impegni e quindi, uomo o donna che sia, io nel mio letto dormo con
chi voglio. E poi, per quanto riguarda il film che probabilmente ti sei fatto,
dimmi un po’, l’altra notte a Darmstad, hai dormito bene? Cosa ti ha fatto
credere che non me l’avrebbe detto, cazzo, te l’ho presentata io, è una mia
amica.
Colpito e
affondato!
Scruto di
sottecchi Jó alla ricerca di una via d’uscita, ma non ne trovo.
Lei è incazzata,
si vede, ma non va via, mi guarda, sembra sfidarmi a superare l’impasse.
Chino il capo per
qualche secondo, respiro profondamente, rialzo lo sguardo e cerco i suoi occhi:
- Scusami -
biascico timidamente.
Non si scompone
mica più di tanto, giusto un respiro un po’ più profondo degli altri che sa
tanto di “vabbé và, stavolta l’hai svangata”.
Si sporge sul
bordo della seggiola e mi dà un buffetto sulla guancia:
- Sono quasi le
tre del pomeriggio: andiamo ché devi preparare il pesce al forno.
7
“Che coss’è
l’amor...chiedilo al vento...-
Per l’appunto, un
bel mambo “prendimi-per-il-culo”di Capossela è quello che mancava.
Comunque sia, la
bottiglia di Krug, la seconda, è quasi vuota e del merluzzo restano ormai solo
la testa, la coda e la lisca nel piatto di portata sul tavolo.
Mentre cucinavo e
poi durante la cena, le due hanno fatto comunella, mi hanno dato poca corda. Il
mio imbarazzo era lì, lampante: m’hanno sgamato su tutta la linea, ho
fatto una figura da tanardo e mi pesava. Così la conversazione non è stata
propriamente brillante.
Almeno tra me e
loro. Loro due, caspita, non hanno smesso un attimo di parlare e cicalare e
cinguettare e sorridersi e farsi complimenti. Dopo la cena, che hanno consumato
raccontandosi i fatti loro, si sono alzate da tavola e semplicemente si sono
messe più comode.
Ora sono sul
divano e interrompono il loro fitto conciliabolo a bassa voce o per baciarsi
oppure per lanciare sguardi nella mia direzione seguiti da risatine che sono
tutte un programma.
Io faccio
l’indifferente: guardo la gara di moto in televisione ma quando si baciano e
hanno gli occhi chiusi le guardo e il sangue mi monta al cervello.
Le loro mani
corrono, cercano, premono e l’espressione sui loro visi racconta le sensazioni
che provano nello scambiarsi quelle carezze e, ci aggiungo io, nel farlo
davanti a me.
Sembrano
divertirsi della mia incapacità a tirar fuori un approccio decente, un qualcosa
che mi permetta di mettere una pietra sopra all’accaduto e unirmi al loro
gioco.
Mi viene da
pensare a tutta la baldanza che ho mostrato fino al giorno prima e anche se
davanti a loro non lo ammetterei mai, devo far buon viso a cattivo gioco: ho
trovato una tipa, anzi due, più toste di me.
Ma chissenefrega
se Valentino ha vinto di nuovo e adesso è a un passo dal mondiale piloti. Mi
alzo dalla poltrona, verso nel flûte l’ultimo goccio di champagne e mi avvio
verso la veranda posteriore per accendere una sigaretta.
Eccomi lì nel
silenzio della sera, sotto le stelle di Andersen e con la lieve brezza che
arriva dal Mar del Nord e che mi fa rabbrividire. Tra una boccata e l’altra
riecco la vocina:
“E vai di là
tanardo, invece di fare l’offeso - dice con tono irridente - vai di là,
ti siedi sul bordo del divano e con semplicità dici chiaramente che sei stato
stupido prima di tutto a farti quel film delle due storie segrete e dopo, come
se non fosse bastato, a montare la finta scenata di gelosia di stamattina.
Diglielo che sono belle, che ti piace guardarle, che le desideri. Diglielo che
ti eccitano da morire, che il loro gioco ti sta facendo uscire di testa. Vai
belinone, vai a dirglielo.”
Stavolta non la
ingiurio, la vocina. Ritorno in soggiorno e mi rendo conto che l’atmosfera si è
riscaldata ancora di più: Jó e Viola sono sdraiate sul divano, ormai discinte,
e si scambiano effusioni appassionate.
Mi siedo con
cautela sul bordo del divano a cinque centimetri dalle due donne che continuano
ad accarezzarsi senza dar segno di avermi visto:
-
Jó...Viola...scusatemi, ho sbagliato, sono stato stupido a fare quella scena
stamattina. È vero è meglio così, è più bello, senza conquiste, senza truschini
e senza sotterfugi.
Niente, zero,
nulla: sembra non abbiamo nemmeno sentito.
- Madonna che
belle che siete, mi fate impazzire di desiderio...
La mano di
Viola mi copre dolcemente la bocca e
quella di Jó mi attira sul suo seno rigoglioso, le labbra a un centimetro dalle
mie, l’alito caldo, la voce roca:
- Taci: non avevi
detto che venivi su a girare la cosa in reale?
- Si - sussurro io
- avevo detto così...
- E allora girala,
pirla, cosa aspetti? Girala...